In principio fu orrore puro. Gianni Letta, che fa oggi novant’anni portati da adolescente, beato lui con la sua magnifica famiglia di musicofili e cinefili, era il prototipo del brasseur d’affaires romano, dunque abruzzese di stirpe purissima, che detestava tutto quanto io amavo: il decisionismo, Craxi, la cultura comunista dura e scostante, il socialismo nazionale tricolore che sfidava i resti del comunismo con un gagliardo anticomunismo, la possibilità di mettere i missili a Comiso e salvaguardare il patto con Arafat su Abbas per l’Achille Lauro, la socialdemocrazia pimpante e antidemocristiana, la pazzia di Cossiga, poi la tv scollacciata e spazzatura ossia il muro di Vespa e del salotto Angiolillo e del dottor Agnes, un muro altissimo e invalicabile per me che odiavo la tv del focolare, ci univano forse soltanto il rispetto per la mania spendacciona di Cirino Pomicino e per le mani lunghe e belle da assassino matricolato di Giulio Andreotti. Poi con Berlusconi e Confalonieri, che mi pagarono la stessa cifra di Agnes per fare una tv non di stato, piena di salumifici inserzionisti, una gioia modernista per un rompicoglioni come me, tutto cambiò radicalmente.
Scoprii che Gianni Letta era sì un signore felpato disposto a tutti gli imbrogli e le mediazioni, al contrario di me che ero un ragazzone arruffato e iperdecisionista, altrettanto dedito al male ma senza l’ombra dell’ipocrisia e della buona educazione, due marchi di fabbrica del lettismo eterno, ma aveva molto da insegnarmi quando si arrivava al dunque, e va bene che “L’Italia è il paese che amo”, frase fatidica che conquistò per sempre la compagnia, ma questo non si può, quest’altro nemmeno, e stare a sentire Giuliano è un piacere, scrive facile, suggerisce facile, la fa corta, basta non indugiare nel fare esattamente il contrario di quanto lui suggerisce. Per noi che coltiviamo il rigore della mala educación la flessibilità composta, suadente del dottor Letta, mai untuosa e forforosa e sempre abbastanza convincente, era una scuola di base della politica di sempre, a parte il difetto di disruption, di rivoluzione, di cattiveria. Berlusconi attingeva ai cibi semipeperoncinati che gli preparava il cuoco Michele, mio ammiratore segreto come tutti i tifosi del berlusconismo estremista.
Poi sceglieva quasi sempre la pietanza senz’aglio che assomigliava di più a quel fenomenale fumatore di sigari toscani, l’affettuoso mobile, disponibile, competente consigliori per il meglio e per il meglio del peggio. Quando varammo il decreto Biondi, forti della vaghezza coraggiosa del Guardasigilli e del suo sottopancia, il geniale Contestabile, decreto il cui scopo era sottrarre al carcere i “ladri” della Repubblica dei partiti e castigare il golpismo giudiziario, in Consiglio dei ministri, dove ero delegato per i Rapporti con il Parlamento e portavoce del governo ai sensi di una qualche legge Amato, sapevamo che se sottoposto al coordinamento lettiano del dopo-consiglio il decreto ne sarebbe uscito evirato, e la galera non avrebbe aperto le sue porte ai gentiluomini e ai malommini della Prima Repubblica: facemmo un piccolo golpe, portando subito l’incartamento in conferenza stampa, delega che avevamo, e aprendo il carcere di Poggioreale a Di Donato e altri, e chissenefrega del coordinamento. Fu un colpo concordato col Berlusconi più incisivo, in assetto di autodifesa militante, ma fu un colpo devastante. Continua su ilfoglio.it