“Comunque sarò il prossimo James Bond (di sicuro…)”. E’ l’ultima vignetta di Vincino, alias Vicenzo Gallo, pubblicata sul “Foglio” di oggi. Se n’è andato a 72 anni, Vincino. Si è spento a Roma dopo una lunga malattia. Ha lasciato una profonda ferita, apertissima, nel cuore di una famiglia che lo ha ospitato con entusiasmo sin dal 1995, anno della fondazione del “Foglio”. Che sul proprio sito ha annunciato la sua scomparsa come quella di un amico caro. Anche un altro celebre vignettista, Vauro, lo ha salutato su Twitter: “Hai salutato i grandi mostri della politica italiana… E mi hai lasciato solo con i mostriciattoli. Ciao Vincino amico mio”.

Vincenzo Gallo, originario di Palermo – il papà era un manager nei cantieri navali – muove i primi passi collaborando con il quotidiano L’Ora della sua città (1969). Si era da poco laureato in architettura. Aveva conosciuto l’esperienza del carcere per essere un sovversivo, all’Ucciardone. Poi saluta la città di Ciancimino, quella delle prime battaglie politiche, e si trasferisce a Roma, dove comincia a lavorare per il giornale Lotta Continua, la formazione della sinistra parlamentare in cui milita.

Seguono tante avventure (Il Clandestino, Tango, Linus, la fondazione della rivista “Il Male” proprio assieme a Vauro) fino all’approdo, nel 1987, al Corriere della Sera. Colonna portante di Cuore, l’inserto satirico de L’Unità, fino alla sua chiusura. Infine l’esperienza totalizzante col Foglio, fino al giorno prima della morte. “Noi rivoltiamo l’umanità, la ridicolizziamo. E questo è il cuore della satira” spiegava quasi sprezzante a Salvatore Merlo, in una lunga chiacchierata all’indomani dell’irruzione dei terroristi islamici nella sede parigina di Charlie Hebdo, dove perse uno dei suoi mentori (Wolinski). “Voi scrivete come se le parole pesassero quanto un martello pneumatico, come un martello vibrante per l’incertezza e il tremito delle mani, in una selva d’aggettivi e parole. Noi facciamo un disegno. E boom!” spiegava in quell’intervista.

A tratteggiare per bene alcuni aspetti del suo carattere è stato in un lungo ritratto Giuliano Ferrara, l’ex direttore del Foglio: “Vincino è un populista, un antisistema, però conosce la storia, un populista che si è informato”. “Purtroppo per lui è un letterato di genio a cavallo di due secoli, se tira una riga c’è una storia, se tondeggia e colora ecco un romanzo. Altri fanno satira, lui ha fatto stile (…) E’ un uomo e un autore che ama l’assurdo, l’irriverenza è la sua seconda e terza pelle (…) Fa quel che cazzo gli pare, ritira qualche vignetta se la tipografia è ferma per un suo oltraggio, obbedisce se sia il caso, in prevalenza fugge, sfugge, svicola e sta al fronte in modo sfrontato, mostra il petto e ritira la mesata”.

Il suo ultimo lavoro, vignette a parte, è un libro: “Mi chiamavano Togliatti”. “Uno sghembo manuale di satira – lo definisce lo stesso Ferrara nella sua prefazione – un flusso d’incoscienza, un’autobiografia oscena e candida, funestata dalle facce note di Andreotti, Fanfani, Agnelli, Berlusconi, Scalfari, Occhetto, ma anche ispirata a ricordi affettuosi e privati”. Ciao, Vincino!