Peccato, è proprio un peccato che il già fu Teatro Stabile di Catania abbia costretto il duo Pirrotta Vincenzo e Andò Roberto, in una sia pur pregevole edizione di questo “Ce que j’appelle oubli” titolato per l’occasione “Studio su Storia di un oblio” del francese Laurent Mauvignier, al magro bottino di un pubblico ridotto a venti spettatori a sera. Meritava di più il testo, che avevamo visto qualche anno fa in una bella edizione presso l’Accademia di Francia a Roma; meritava di più Pirrotta che con quel teatro ha mietuto ben altri successi.
Ma oggi vogliamo solo parlare di Pirrotta. Artista che ha costruito una identità teatrale sulla forza del cunto intriso di culturale antropologia e forza di sangue. Raccontano i colleghi, che lo hanno conosciuto quando faceva i primi passi da attore dopo la scuola dell’INDA e nei cori delle rappresentazioni classiche di Siracusa, che l’ossessione di Pirrotta era il cunto, succhiato dalle mammelle del grande puparo Cuticchio Mimmo di Palermo, e reso come monologo monologante proprio da Pirrotta. Lo recitava a chiunque incontrasse nei camerini e nei corridoi, costringendo il bencapitato a sentire più di un quarto d’ora di puparie rodomontate.
Ed è stata questa la sua felice intuizione: il ritmo del cunto, con i suoi fiati, le sue battute, i climax e le surreali tonalità recitative, portati nell’alveo del teatro di prosa facendolo sposare con il Pirandello del Ciclope come con il Bufalino di Diceria dell’untore o con l’improbabile romanzo di Vincenzo Rabito in Terra Matta. Il puparo di Partinico ha fatto di questa recitazione, insieme ad una rigorosa prossemica gestuale, il suo stile inconfondibile, anticipando, ed invero ponendosi anche come modello, delle imitazioni siciliane successive compresa la poetica non poetica di Emma Dante.
Perché risulta chiara una cosa: Pirrotta è un artista che studia il testo che ha di fronte, sia si tratti di neo autori contemporanei sia si tratti dell’Olimpo del Teatro da Eschilo a Pirandello appunto. Non sovrappone una struttura illusoria al testo, ma una concreta vitalità di sangue che fa eco alla vita e al suo grido di perenne dolore. Il teatro di Pirrotta non è contemporaneo per moda, ma sincronico per necessità. Tanto necessario che si è fatto anche scrittura autonoma, autorale divenendo così a tutto tondo narratore narrante di se stesso. Un cuntista che cunta di sé, un cuntista cuntatu. Pedofilia e Mafia sono stati i suoi grandi temi di esordio, in Sacre stie e ne La balata delle ballate, dove il legame con la terra era narrata in forma di ancestrale siciliano, intraducibile quasi, incomprensibile alla lettura, ma piano e violento nella forza recitativa dell’autore Pirrotta. Un senso della lingua conosciuto e scavato, un uso del parlato colto e popolare ad un tempo, del siciliano che si bagna nelle acque teatrali dell’umus di Pirrotta – tra pupi e banniate, tra nobili e ironici cortili e vuccirie ritrovate – e che fanno del suo linguaggio teatrale un unicum nel povero panorama del teatro contemporaneo siciliano.
Ma il Pirrotta Vincenzo è anche un artista politico, sul palcoscenico, come nella vita. Non stupisce infatti che sia amato dai potenti di turno, che pur non comprendendone il valore realmente rivoluzionario del suo teatro – altrimenti anche per non entrare in contraddizione con se stessi dovrebbero stargli alla larga – si lasciano affascinare dalla forza vitale del prometeo siciliano. Egli si muove con prudente capacità tra le lusinghe di questa classe politica così digiuna di cultura così ignorante cronica di teatro che se lo contende in cene e manifestazioni cui, invero, l’astuto puparo declina, selezionandoli, gli inviti.
Solo le lingue più biforcute narrano che il vero amore profuso senza veli da chiacchierati sindaci e governatori degli ultimi anni nei confronti dell’artista poliforme Pirrotta Vincenzo da Partinico sia dovuto al fascino che, malgré lui, esercita sulle rispettive consorti. Ma un attore di cotanto talento non insegue le dicerie dell’untore.