Un gruppo di potere o, se preferite, un rispettabilissimo clan di avvocati – studio Pinelli-Schifani; studio Armao; studio Dagnino – ha piantato le tende nel cuore della Regione, ma la politica, impotente e servile, se ne sta a guardare. Non c’è una sola voce che mostri un dissenso, che manifesti una preoccupazione, che lanci un allarme. Con la solenne investitura di Alessandro Dagnino, persona indubbiamente perbene, come futuro assessore al Bilancio, il viceré Renato Schifani completa di fatto la struttura feudale della Regione. Una struttura verticale: sul trono di Palazzo d’Orleans c’è lui; sotto di lui c’è il vassallo Gaetano Armao, l’opaco consigliere che ha già usurpato all’ex assessore Marco Falcone i poteri economicamente più consistenti; e sotto Armao – almeno così prevedono i maligni – ci sarà da ora in poi Dagnino; che in questa scala gerarchica sarebbe il valvassore: cioè il vassallo del vassallo del viceré. Ma anche se Dagnino dovesse rivelarsi l’assessore più autonomo e indipendente del mondo, il meraviglioso trittico, del quale egli comunque fa parte, avrà già espugnato – legittimamente, per carità – il residuo potere che, con Falcone, era rimasto nelle mani di Forza Italia. Bene. A fronte di uno scempio così sfacciato, avete sentito una protesta, un urlo, un bisbiglio proveniente da Antonio Tajani, segretario nazionale del partito? Niente. Solo silenzio.

La lunga e miserabile catena dell’omertà purtroppo non si ferma al ruolo, completamente assente, di Tajani. La scelta di un “tecnico”, chiamiamolo pure così, per un assessorato chiave come il Bilancio, nasconde – ferme restando le indubbie qualità professionali di Alessandro Dagnino – un messaggio a dir poco oltraggioso per tutta la delegazione parlamentare azzurra. Sta a significare che nessuno degli otto deputati di Forza Italia è ritenuto capace – o degno – di ricoprire una carica di governo: dopo Falcone, il diluvio. Bene. Avete sentito levarsi, dai banchi di Sala d’Ercole, una nota di sdegno, di indignazione o di pura e leale contestazione? Niente. Zero tagliato. Avete letto un comunicato, anche timidamente critico, sottoscritto da quel re travicello che risponde al nome di Marcello Caruso, ufficialmente coordinatore regionale del partito fondato da Silvio Berlusconi ma sostanzialmente il ventriloquo, pedante e ossequioso, dell’intrepido conducator di Palazzo d’Orleans? Altro zero.

La mortificazione della rappresentanza politica, portata avanti con tenacia ossessiva, da Renato Schifani, comincia a sollevare interrogativi inquietanti sia sotto il profilo del diritto costituzionale, sia sotto il profilo squisitamente politico. Ed è una questione che investe direttamente l’Assemblea regionale, dove il governo non si vede nemmeno per rispondere a interrogazioni e interpellanze. Ma a Palazzo dei Normanni, purtroppo, le forze di maggioranza si sono mummificate: non riescono neanche a balbettare un discorsetto da cerimonia; e le forze di opposizione non sanno più a che santo votarsi, storditi come sono da un populismo infantile, vanaglorioso, giullaresco, fine a se stesso.

Potrebbe avere un ruolo importante il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno. Ma non sembra che il “bravo ragazzo di Paternò” – così lo chiama amorevolmente Ignazio La Russa, suo padrino politico – abbia molto a cuore le questioni di levatura istituzionale come la dialettica e la rappresentanza politica. Da patriota obbediente alle logiche e alle gerarchie del partito, gli interessa di più tutelare l’altro feudo – quello del Balilla, suo fraternissimo e potentissimo amico – e fare in modo che nessuno alzi pubblicamente la pietra dello scandalo SeeSicily per vedere i vermi che ci camminano sotto.