C’è del pecoreccio nell’arte di Manifesta

E’ giusto che diventi installazione d’arte perché “minchia” è lo scudo contro la cattiva sorte così come il “merd alors” è l’unico modo per mandare al diavolo i populisti. Insomma è più di un’installazione questa luminaria che a Palermo, in occasione di Manifesta, l’artista Fabrizio Cicero ha progettato e che è stata fatta brillare in via Alloro, scatenando come era prevedibile la risata e la condivisione social, quel dare di gomito che ne ha già sancito la popolarità e il successo.

L’artista è siciliano, di Barcellona Pozzo di Gotto, comune che evidentemente favorisce il gene artistico della provocazione. Anche Emilio Isgrò, il padre della cancellature, condivide con Cicero la terra di origine, e anche Isgrò si è limitato a elevare a forma ad arte un gesto quotidiano, la cancellatura, come l’improperio, finalmente museificata. Si tratta della tecnica già utilizzata dai surrealisti e dai dadaisti. Pensate ai baffi alla Gioconda o al “Questa non è una pipa” di Magritte sotto una vera pipa. In questo caso il turpiloquio non è turpiloquio e averlo inserito in una luminaria, le luci che solitamente si utilizzano nelle feste sante, non è una bestemmia ma la sconfinata preghiera di chi crede ma impreca, di chi maledice ma per chiedere aiuto.

Ha provato a spiegarlo pure Cicero che la sua non è la scorciatoia per colpire il grande pubblico, per solleticare gli intellettuali che sono pronti a difenderlo e crocifiggerlo: «Quella che può apparire come un’operazione dissacrante è invece un piccolo e modesto inno al sacro». Lo era pure “La Ricotta” di Pier Paolo Pasolini con quella comparsa che dopo un’indigestione muore proprio mentre si gira un film sulla Passione di Cristo. Senza giri di parole, e questa volta si può dire, l’opera si inserisce nel contesto, tra quelle vie di Palermo che in queste settimane ha ospitato diciamolo francamente arte ma anche “minchionerie”. E non si intende solo quel video dell’artista Zheng Bo che all’orto botanico ha proiettato un video di masturbazione con le piante. Non siamo tra quelli che la ritengono pornografia ma tra quelli che la ritengono appunto una minchiata. Tutta l’arte contemporanea è ormai di difficile lettura.

Curioso fu quanto avvenne durante una Biennale a Venezia. L’installazione stava tutta nel lancio di un uovo su una parete bianca. Peccato che una mattina, l’inserviente, non intendendosi molto di arte ma tantissimo di igiene e pulizia, decise di pulire il muro e smontare l’artista. Pensateci, un attimo. Qui non c’è bisogno di chiedere aiuto ai critici, di riempire schede introduttive. Come di fronte al dito alzato di Maurizio Cattelan a piazza Borsa a Milano, non occorre sapere ma vedere. In questi tempi in cui tutto è arte, “minchia” è sicuramente un modo per irridere l’arte stessa. E ancora “Minchia” come parola inflazionata e come codice dei social ormai ridotti a latrina, al bagno pubblico dove ognuno imbratta il proprio malessere contro il mondo. Minchia allora. Non è dunque la parolaccia d’artista, ma soltanto la parola del tempo.

Carmelo Caruso per Il Foglio :

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