Fateci caso: lunedì, giorno delle celebrazioni, erano tutti lì, sul grande palcoscenico della memoria allestito a Palermo per rendere onore al sacrificio di Giovanni Falcone, saltato in aria trent’anni fa sull’autostrada di Capaci con la moglie e gli uomini della scorta. C’erano i giudici che non hanno mai smesso di piangerlo e i giudici che non hanno saputo raccogliere la sua eredità. C’erano i giudici che hanno sempre diffidato dei pentiti e quelli che invece li hanno coccolati, adulati, incoraggiati e persino imbeccati per vincere facile nei processi e godere dei privilegi che il successo avrebbe inevitabilmente comportato. C’erano i magistrati che credono nello stato di diritto e che svolgono le indagini cercando le prove e i riscontri necessari per arrivare a sentenza; e c’erano i magistrati che invece cedono ancora al fascino dei teoremi e del sospetto come anticamera della verità: quelli – per dirla tutta – che hanno usato e usano le inchieste per alimentare il circo mediatico giudiziario, per guadagnarsi un posto nel piazzale degli eroi, per devastare con i trojan la vita degli altri, per traccheggiare con la politica, per mascariare e sputtanare i mille e mille disperati finiti nel gorgo di una giustizia malsana, furbastra, inaffidabile e spudoratamente ingiusta.
Falcone era un magistrato serio. Ed era soprattutto alle prese con una mafia spaventosa e onnipotente, disposta a qualsiasi violenza pur di imporre la sua legge e le sue sopraffazioni. Era avvivato a Palermo poco prima di quella maledetta Epifania del 1980 in cui un killer armato di pistola assassinò, in via Libertà, Piersanti Mattarella, giovane e promettente presidente della Regione. Un uomo onesto. Un politico “con le carte in regola”: così amava definirsi. Chi aveva dato l’ordine di ucciderlo? C’era, su quel primo delitto eccellente, un mistero fitto, fittissimo. Ma c’era soprattutto una grande domanda di giustizia. Mai la mafia aveva osato tanto. Quale cosca o quale boss aveva lanciato una sfida così alta e temeraria?
A Palazzo di Giustizia i cronisti vagavano da una stanza all’altra a caccia di un indizio, di un’ipotesi, di un nome. Inutilmente. Fuori dal palazzo si addensavano chiacchiere e sospetti. Leoluca Orlando e padre Ennio Pintacuda, punte avanzate di un’antimafia chiodata, chiedevano a gran voce di impiccare all’albero della gogna l’eurodeputato Salvo Lima, padre padrone di quella Dc siciliana che faceva capo alla corrente di Giulio Andreotti. E fu allora che mani espertissime lanciarono una trappola estremamente insidiosa. Fecero sapere a Falcone, che nel carcere di Alessandria c’era un pentito di media caratura, un malacarne che, pur di accreditarsi con i magistrati e ricavare i benefici concessi ai collaboratori di giustizia, aveva già spedito in carcere una settantina di picciotti e di neofascisti catanesi. Si chiamava Giuseppe Pellegriti e – secondo fonti, ovviamente confidenziali – era pronto a mettere nero su bianco e a indicare come killer dell’omicidio Mattarella tale Carlo Campanella, noto solo alla mamma e ai casellari giudiziari, e come mandante, manco a dirlo, proprio lui, quel reliquiario di tutte le nefandezze che rispondeva al nome altisonante di Salvo Lima: torvo, muto, legnoso, ammanicato con i terribili cugini Salvo, esattori di Salemi, e in odore di solidarietà con Stefano Bontade, Michele Greco e Tano Badalamenti, i tre mammasantissima che avevano retto la cupola mafiosa fino all’arrivo dei sanguinari corleonesi guidati all’assalto di Palermo e della Sicilia da Totò Riina, detto ‘u curtu.
Diciamolo: Giovanni Falcone poteva cogliere l’occasione per saldare la sua antimafia giudiziaria all’antimafia della piazza. Per diventare “magistrato del popolo”. Per conquistare il circo mediatico giudiziario. Per sbaragliare, forte della popolarità, i tanti nemici che si annidavano nelle istituzioni e nella stessa magistratura. Invece no. Lui fece puntualmente gli accertamenti del caso e quando si trovò di fronte a Pellegriti cominciò con una domanda secca: lei conferma che a uccidere Mattarella è stato Carlo Campanella? Lo sventurato rispose di sì. E si incastrò. Falcone gli dimostrò che il giorno del delitto Campanella si trovava regolarmente in carcere e quindi non poteva dalla sua cella sparare al presidente della Regione siciliana. Pellegriti cominciò a balbettare e, per non sprofondare, ammise di avere orecchiato il nome del killer e soprattutto quello di Lima da un suggeritore particolare che le solite menti raffinatissime avevano opportunamente sistemato con lui, nella stessa cella: Angelo Izzo, meglio conosciuto nella malavita come “il massacratore del Circeo”, un rudere dell’eversione nera, un delatore rotto a tutte le esperienze, anche le più torbide.
La sceneggiata di Pellegriti non poteva che finire com’è finita. Con l’incriminazione per calunnia. Una colossale batosta per il pentito ma soprattutto per i puri e duri dell’antimafia. Leoluca Orlando, che sperava ardentemente nell’incriminazione di Lima e nella sua eliminazione per via giudiziaria, non ingoiò il rospo e accusò Falcone di tenere “le prove nei cassetti”. La polemica tracimò sui giornali e poi su Samarcanda, il programma tv di Michele Santoro, e poi sul Maurizio Costanzo Show. Arrivò persino al Consiglio superiore della Magistratura, davanti al quale il giudice fu costretto a difendere il proprio coraggio e la propria intransigenza. Disse che le garanzie, quelle previste dalla Costituzione, valevano anche per Lima.
Lui sapeva come trattare i pentiti. Aveva puntato su Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, e lo aveva estradato dal Brasile perché deponesse al maxi processo contro i quattrocento uomini di Cosa Nostra, boss e picciotti, rinchiusi dentro le gabbie dell’aula bunker costruita appositamente per loro dietro il carcere dell’Ucciardone. Delle sue rivelazioni aveva controllato ogni dettaglio, ogni episodio, ogni circostanza. Al punto che Buscetta non fu mai smentito in aula. Quando, in un rovente faccia a faccia, gli si avventò contro Pippo Calò, boss del mandamento palermitano di Porta Nuova, il primo grande pentito di Cosa Nostra tirò fuori i retroscena di un delitto, al quale Calò aveva partecipato, e lo fulminò seduta stante.
Per un diabolico capriccio del destino – o forse no – con l’attentato di Capaci non muore solo Falcone, ma anche il suo modo di fare e assicurare giustizia. Arrestato Riina, gennaio 1993, e murati vivi nel carcere duro i boss che avevano fatto da corona alla sua follia, ha preso piede lentamente una magistratura che, non avendo più davanti una mafia militare da sconfiggere, ha pensato bene di “riscrivere la storia d’Italia” e di scandagliare i palazzi del potere: per scoprire le complicità e i mandanti esterni delle stragi; per disvelare le trame oscure e scovare i registi occulti di quella violenta stagione di sangue. E di teorema in teorema è nata la “boiata pazzesca” della Trattativa: un altro maxiprocesso nel quale non c’erano né prove né un movente in grado di reggere il patto scellerato tra lo Stato e Cosa Nostra. C’era solo un aggrovigliato e inverosimile gioco di specchi tra due pataccari: da un lato Massimo Ciancimino, diventato all’improvviso il ventriloquo del padre, quel Don Vito che fu uomo dei corleonesi e anche sindaco di Palermo; dall’altro lato Giovanni Brusca, il feroce boss che schiacciò il telecomando di Capaci e che dopo avere confessato la strage e altri cento omicidi, grazie alla Trattativa l’ha fatta franca: ha avuto anche oltre ottanta permessi per alleggerire la sua pena e ora si gode felicemente la sua libertà.
E chi se ne frega se i due pataccari – coccolati dai magistrati di riferimento – hanno scaricato macigni di infamia e di disonore su gente che non aveva mai trattato con i boss, come l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, o su quegli alti ufficiali dei carabinieri, come i generali Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni immediatamente successivi alle stragi avevano arrestato Riina e fatto di tutto per arginare il terrore mafioso. Chi se ne frega se hanno dovuto aspettare più di dieci anni perché una Corte d’Appello accertasse la loro innocenza.
Ieri, durante le celebrazioni, le luci abbaglianti della retorica non ci hanno consentito di vedere gli effetti collaterali che la morte di Falcone ha provocato dentro e fuori dei Palazzi di Giustizia. Nessuno ha evocato il caso Pellegriti. Uno spartiacque tra giustizia e malagiustizia. Tra lo stato di diritto e i processi di piazza: quelli che si celebrano sui giornali e nei talk-show, quelli che ci divertono tanto.
(questo è un articolo scritto per ‘Il Foglio’)