In quest’estate che tarda ad annunciarsi, l’accessorio indispensabile (cent’anni fa lo si sarebbe definito “de rigueur”; fino a pochi anni fa “must have”, oggi è più elegante parlare in italiano) è il turbante: per le signore è l’accessorio più comodo sotto ogni profilo che, peraltro, valorizza. A fascia larga come i modelli creati per Gucci da Alessandro Michele, il creativo all’origine di ogni tendenza da quattro anni a questa parte, oppure a copertura totale del capo come nello stile tradizionale e unisex dei sikh, il turbante offre l’indubbio vantaggio di incorniciare il viso ed esaltare gli occhi con un gesto, occultando generosamente tutto quello che può non funzionare in testa; per esempio, i capelli in disordine o la mancanza degli stessi a seguito di un trattamento chemioterapico.
La malattia, e la raccolta di fondi per la ricerca, è infatti all’origine di una delle linee di turbanti di maggiore successo dell’ultimo periodo, “hera”, firmata dal setaiolo comasco maximo, Mantero. Nato come elemento dell’abbigliamento maschile, per ragioni di esotismo e della succitata comodità divenuto già nei primissimi anni dell’impero napoleonico accessorio gradito alle signore (pensate al ritratto di madame de Stael di Maria Eleonoire Godefroid; negli Anni Venti del Novecento a Greta Garbo) il turbante è un’eccezione culturale che nel passaggio di emisfero ha ribaltato il proprio destinatario naturale e il suo stesso senso, la dignità virile: non troverete mai un uomo nato a nord di Tunisi inturbantato sopra la grisaglia come succede a Dehli, mentre a Milano due delle signore più in vista, la brand advisor Helen Nonini e l’antiquaria Nina Yashar, hanno addirittura costruito il proprio personaggio grazie a un uso sapiente dei turbanti, che non abbandonano mai. Helen lo indossa anche nell’ultima campagna di Pomellato, di cui è divenuta, nel frattempo, testimonial.