Logoramento di Schifani o rafforzamento del centrodestra? Attorno a questo interrogativo si sviluppa la federazione fra Raffaele Lombardo (fautore n.1), Roberto Lagalla e Gianfranco Micciché, ieri pomeriggio, dall’hotel Politeama di piazza Ruggero Settimo, hanno vita a una nuova creatura centrista: l’obiettivo (dichiarato) è riportare sotto la stessa bandiera una lunga filiera di sindaci che finora non si riconosce nei partiti tradizionali. Ma è ovvio che nei ragionamenti di questi mesi, il significato di un’operazione simile è stato soppesato più volte: ad esempio, Raffaele Lombardo, che già ai tempi della federazione con Lega aveva preteso il riconoscimento di un assessore in più alla Regione, e che persino dopo l’elezione di Caterina Chinnici a Strasburgo aveva reiterato la richiesta, potrebbe sferrare l’affondo decisivo?

Anche perché questa intesa – di natura autonomista, civica e, volendo, liberal-popolare – sorge attorno, maturata negli ultimi mesi, ad alcuni protagonisti che hanno avuto rapporti controversi con l’attuale governatore. La loro unione non è marcatamente ostile (anzi, il contrario secondo Lombardo), però qualcosa vorrà dire. Oltre all’obiettivo di impedire una deriva patriota, sicuramente ha la forza di cementare un fronte interno capace di incidere sui provvedimenti, sulle nomine di sottogoverno, persino sui contributi alle associazioni culturali e, come ovvio, sulle scelte da compiere per il 2027. Anno in cui Schifani, a differenza del proprio predecessore, spera di strappare il pass per la seconda candidatura a Palazzo d’Orleans.

Ribaltando la prospettiva, anche al governatore serve farseli amici. Non potrà più trattare Miccichè come il “reietto” della situazione. I problemi esplosi all’indomani della vittoriosa campagna elettorale del 2022, dovranno essere accantonati. I due, stando alle cronache, si sono “salutati” e “baciati” dopo l’approvazione in giunta della Legge di Stabilità, due anni dopo l’ultimo contatto. “In politica ho imparato a dimenticare, sono davvero contento”, dichiarò Schifani all’inizio di novembre. Salvo poi, con una successiva intervista, “concedere” a Miccichè l’opportunità di redimersi rientrando nel partito. Assist neutralizzato sul nascere. “Non è previsto”. Ma non saranno queste scaramucce a rovinare gli intenti, in apparenza pacifici, di entrambi. Significherà qualche mese di convivenza forzata; con l’offerta a Micciché di una scialuppa di salvataggio dopo mesi difficili, segnati da qualche ammaccatura personale, ma anche una forma di riabilitazione politica, con tutti i rischi che comporta. Fu l’ex presidente dell’Ars, per dirne una, a far saltare il banco a Musumeci.

Ma non è l’unica insidia di questo compromesso al ribasso. Perché Schifani dovrà imparare a guardare con distacco, senza gelosie, anche ai movimenti del sindaco di Palermo, Roberto Lagalla. Cioè uno dei potenziali concorrenti per lo scettro di Palazzo d’Orleans nel 2027. Ci sono stati momenti di tensione fra i due, acuiti dal tackle di Schifani sull’estromissione dei componenti renziani dalla giunta di Palermo (ai due è bastato dichiararsi ‘civici’ per non incorrere in conseguenze più dannose) all’indomani delle critiche di Faraone al suo operato. E non sono mancati i dissidi nemmeno sulle nomine del sottogoverno, dal Teatro Massimo alla Gesap. C’è stato persino un pubblico richiamo, durante la passerella di Forza Italia al Domina Zagarella, a cui il sindaco di Palermo aveva partecipato in veste istituzionale: “Roberto Lagalla – intervenne il governatore – è un amico. Però deve entrare nella logica che se si fa parte di una squadra, se una parte della famiglia ti chiede di incontrarci, ci si riunisce, ci si parla”. Ieri però Lagalla è stato netto: “Escludo di pensare alla presidenza della Regione: sto lavorando per la mia città e se le cose dovessero andare bene mi piacerebbe riproporre la mia candidatura per un secondo quinquennio”.

Però, si sa, i rancori fanno giri immensi e poi ritornano, più degli amori. E quindi anche i rapporti col sindaco andranno smussati e monitorati con attenzione, magari grazie alla strategia e all’apporto di Raffaele Lombardo. Che in questa prima metà della legislatura si era ritagliato il ruolo di “pungolo” del governo. Anche fra lui e il presidente della Regione non sono mancati gli scontri, dettati per altro dallo schiacciamento di Schifani su Totò Cuffaro (che Lombardo – eufemismo – non ama particolarmente). Si è partiti dalla sanità – contestati il metodo e il merito di alcune indicazioni dei partiti – passando per il ruolo dell’assessore all’Energia, Roberto Di Mauro, che Lombardo ha difeso anche a Roma dai tentativi di detronizzazione: “La sanità siciliana è in ginocchio – disse durante un incontro di partito ad Agrigento – Di questo ci si dovrebbe occupare, non di espropriare un assessore capace, bravo, volenteroso e trasparente come Roberto Di Mauro dalle competenza sui rifiuti e sui termovalorizzatori. Pensi al turismo piuttosto…”. La cronaca è piena di spunti. Parole pronunciate consapevolmente, che non lasciano spazio all’immaginazione e dimostrano le difficili convergenze tra i pianeti. Ma qualcosa dovrà cambiare per forza. Accettare di stare insieme – venerdì Lombardo ufficializzerà la federazione con Forza Italia a livello nazionale – vale qualche piccola rinuncia. Ma anche un nuovo livello di considerazione e di rispetto istituzionale, da ambo le parti. “Il nostro candidato presidente è Schifani, siamo tutti d’accordo”, ha detto ieri Lombardo. Però mancano ancora tre anni.

Un altro esponente di spicco che rientra in partita, con le ultime mosse, è Giorgio Mulè, attuale vicepresidente della Camera dei Deputati. Sfiorò la candidatura alla presidenza della Regione, resa impossibile da un cavillo, ed è stato a capo della corrente (stringatissima) dei non-murati di Forza Italia. Di quelli che anche dopo l’affermazione elettorale dello scorso giugno (con il partito al 23,8% in Sicilia) hanno chiesto conto e ragione di certe strategie e di determinate scelte, soprattutto alla luce dell’umiliazione riservata agli esponenti azzurri dell’Ars, rimasti fuori dalle nomination per una poltrona da assessore (al posto di Falcone è arrivato il “tecnico” Dagnino). Mulé è rimasto vicino a Miccichè, è un sostenitore del sindaco Lagalla, ha subito la furia di Tamajo & Co. in campagna elettorale, ma soprattutto non fa parte della corrente “bere o affogare”. E’ il sostenitore di un partito inclusivo e non supino ai diktat di FdI, che aveva perso la forza di ragionare insieme. Chissà che questa iniezione autonomista non serva davvero a cambiare rotta.