Mesi di silenzio forzato non hanno cancellato la voglia di fare. Ove possibile, hanno accresciuto il desiderio. Così, in anticipo sullo scoccare dell’autunno, la Fondazione Federico II riapre i battenti di Palazzo Reale per una mostra delle sue, in cui – per usare le parole della direttrice, Patrizia Monterosso – “ogni reperto proveniente dal mare Mediterraneo racconta la vita sulla terraferma e ogni reperto della terraferma narra le storie del mare”. Si chiama “Terracqueo”, è stata inaugurata oggi (leggi qui i dettagli) e da domani sarà aperta al pubblico. Otto sezioni e 324 reperti: dalla geologia ai giorni nostri, passando per l’archeologia subacquea. Il pensiero conduce dritti a Sebastiano Tusa, la cui ricostruzione degli eventi della battaglia delle Egadi, si è rivelata determinante ai fini dell’esposizione.
La cultura si riappropria di uno dei palazzi più belli di Palermo. Uno spazio che la Federico II ha allestito assieme a collaboratori prestigiosi: tra questi c’è anche il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN), reduce dall’esperienza di “Thalassa”. “Sono due mostre diverse ma che condividono la visione del Mediterraneo. – spiega la dottoressa Monterosso –. Questa collaborazione evidenzia la capacità di unire due territori e due enti culturali in uno sforzo comune: l’esaltazione del valore culturale della mostra. “Terracqueo” nasce dalla volontà di evidenziare le specificità uniche di un territorio che generò tutti i presupposti per le tradizioni e le affermazioni culturali dell’area geografica del Mediterraneo”. E’ un continuo rimando, che esige “attenzione per l’antichità e riflessione sul contemporaneo”.
Il percorso espositivo inizia con l’Atlante Farnese. Perché lo avete scelto per aprire la mostra?
“L’Atlante da solo vale il prezzo del biglietto. E’ maestoso, meraviglioso. Ma non è una scelta estetica, piuttosto è una scelta di significato. La giusta metafora per non perdere la rotta. E poi la rappresentazione del cratere di Ischia. Un simbolo di naufraghi, di morte, di atrocità, di sospensione in un mare che rende sordo l’urlo. Le atrocità, ieri come oggi, non bastano ad annullare una storia meravigliosa che ha dato vita alle civiltà più importanti del mondo”.
Il mare vissuto come luogo d’incontri. Come culla di civiltà. Come teatro di guerra. C’è un legame forte con l’attualità e la storia dei migranti? La disgregazione dei popoli porterà all’affermazione di qualcosa di nuovo e imperituro?
“I contatti continui tra le diverse aree del Mediterraneo hanno permesso una vera e propria contaminazione culturale, rendendo possibili incontri tra mondi differenti. Le società del Mediterraneo entrarono spesso in conflitto tra loro, ma continuarono sempre a generare cultura e ricchezze, poiché l’aspetto dicotomico tra guerra e pace fu solo la scintilla per creare società e culture avanzate e raffinatissime. Annullare questi accadimenti, ieri come oggi, equivale a vanificare la grandezza della civiltà. Questa consapevolezza è uno dei motivi che ispira la mostra e che, assieme al comitato scientifico multidisciplinare, cerchiamo di mantenere viva in tutto l’allestimento”.
Il comitato scientifico è la vostra task force?
“Ci troviamo dentro di tutto: dallo storico dell’arte al docente ordinario di archeologia. Dalla Soprintendenza del Mare ai direttori dei musei. Non mancano gli antropologi, che si occupano delle dinamiche dei rapporti all’interno della società antica e contemporanea. E gli esperti di innovazione. Tenere insieme questi mondi è la cosa più difficile, che può indurti all’errore. Speriamo di aver reso, anche solo in parte, il nostro intento iniziale”.
Lei ha presentato “Terracqueo” come un racconto, e non una semplice mostra. Ci spiega dove sta la differenza?
“I reperti non sono cose da esporre. Ma frammenti di vita, di storia, di culture che non esistono più, che vanno rispolverate o valorizzate. Ecco perché costruire una mostra è difficilissimo. L’intenzione, ardita ma assolutamente onesta, è chiarire da subito il punto di vista offerto al visitatore. Della definizione di Mediterraneo potremmo riempire quaderni interi, ma serve un approccio complesso, multidisciplinare e dinamico per definire le civiltà che ha generato. Talvolta, in pubblicazioni anche importantissime, manca il doppio punto di vista, della terra e del mare, che camminano insieme. “Terracqueo” è una parola antica, che da solida diventa liquida, in un rimando inscindibile fra terra e mare che non conosce limiti e barriere. Ma c’è anche una seconda sfida…”.
Quale?
“Dobbiamo approcciare al Mediterraneo in maniera attenta, sperando di suscitare riflessioni e domande in chi guarderà ogni reperto. E i reperti sono simboli di civiltà, nell’unicum fra terra e mare, fra vita e morte, fra guerra e pace. Il Mediterraneo, attraverso le affermazioni culturali che ha prodotto, ha saputo generare significati precisi, salvaguardare culture e la fisionomia dell’uomo dentro quel mondo. Questa dimensione dell’antichità, in maniera cruda, chiara e vera, andava posta accanto a una dimensione del Mediterraneo oggi”.
Ecco perché l’ultima sezione della mostra che si chiama “Il Mediterraneo. Oggi”. In cosa consiste?
“E’ un reportage senza veli di un giornalista libero, Carlo Vulpio (firma culturale del Corriere della Sera), e di una fotoreporter, Lucia Casamassima, che per mesi hanno vissuto quei luoghi e fotografato quelle realtà. I visitatori si troveranno all’interno del Mediterraneo, non vi saranno semplicemente proiettati. E ciò comporterà un obbligo: capire cosa genera il nostro comportamento. Ogni nostro atteggiamento, anche a migliaia di chilometri di distanza, influisce sul modo di essere, di preservare, di curare o di andare in contrapposizione e generare apatia. La Fondazione, attraverso il comitato scientifico e le numerose collaborazioni, si pone l’obiettivo di restituire e raccontare questa storia nelle atrocità della guerra, nella bellezza dell’arte, nel rapporto dell’uomo col trascendente. Senza aggiustamenti, filtri o travalicamenti, senza abuso delle immagini”.
Il lockdown ha fermato l’arte, la cultura ma anche i profitti. Come avete vissuto i mesi della chiusura?
“I giorni che hanno anticipato il lockdown sono stati tremendi. Sia io che il presidente della Fondazione, Gianfranco Micciché, abbiamo cominciato ad analizzare gli effetti di questa imprevedibile irruzione nella normalità di tutti i giorni, e in un’attività che procedeva spedita e piena di appuntamenti, con migliaia di visitatori da tutto il mondo. La Fondazione è reduce da un rilancio durato tre anni, si è autoalimentata, e questo è meraviglioso in una terra indicata, spesso, come assistenzialista. Siamo stati bravi a seguire le linee guida del Presidente, secondo cui la cultura deve anche produrre economia. Quel modello lo abbiamo applicato da subito e con ottimi risultati. Ma di fronte alla pandemia s’è fermato tutto: per i fornitori, per chi lavora al bookshop, per i servizi. Una piccola grande tragedia assieme alle altre. La lungimiranza dei deputati dell’Assemblea regionale ci ha fatto ottenere un contributo una tantum, che speriamo arriverà a breve. E ci ha responsabilizzato ulteriormente per far fronte a un’estate diversa dalle altre”.
Sedicimila visitatori a luglio (quasi un terzo rispetto all’anno precedente) e ventisettemila ad agosto. Avete tenuto botta.
“Abbiamo provato a reinventare il nostro metodo di lavoro, modificando i rapporti coi tour operator, con le agenzie di viaggio, con un turismo che ha visto restringere i pacchetti. Avere raggiunto i target nel mese estivo è stato un grande successo, che contribuisce a rendere attrattiva non solo la Sicilia ma anche l’Italia. Il Paese, in questo momento difficile, viene fuori con la sua attrattività. Ci piace pensare di aver dato una mano”.