Gli aumenti alle indennità dei deputati regionali, decisi dall’Ars, non sono classificabili tra gli scherzi del Carnevale in arrivo. L’approvazione della Finanziaria, con la frammentazione delle norme in singoli provvedimenti di spesa, ha portato qualche mancetta ai territori, ma pochissime prospettive di sviluppo alla Sicilia e ai siciliani. Semmai un pizzico d’amaro in bocca, figlio di realismo e populismo insieme, che proietta l’immagine della politica in un mondo parallelo. Dove le difficoltà appartengono solo agli ‘ultimi’, e i privilegi ai soliti.
L’adeguamento Istat previsto dalla legge regionale n.1 del 2014, e inserito nelle pieghe del bilancio dell’Ars che nessuno o quasi ha consultato alla vigilia dell’approvazione, comporterà un aggravio di cassa pari a 750 mila euro l’anno. Che significa 10.700 euro a deputato. Per un totale di 890 euro al mese. Lordi. Paga l’Assemblea regionale. Non bastasse l’aumento delle indennità – una legge è legge, giusta o sbagliata che sia – a complicare la credibilità della politica siciliana è stato il “dopo”. A partire dalla rovinosa corsa all’indietro di alcuni gruppi parlamentari, sotto la spinta di Roma. A fare i populisti il guadagno è relativo, specie quando mancano una strategia utile al raggiungimento dello scopo.
All’emendamento abrogativo proposto da Cateno De Luca, che avrebbe voluto cancellare l’adeguamento imposto per legge, è mancato il sostegno dei gruppi di Cateno De Luca, che per denunciare la pratica del voto segreto – anche questa riconosciuta dai regolamenti d’aula – hanno sfilato il tesserino dichiarandosi “non votanti”. Ma nelle ultime ore si è appreso che nemmeno quella proposta sarebbe servita a sparigliare. I soldi non sarebbero potuti rimanere nelle casse dell’Assemblea. Per questo anche la battuta in ritirata degli esponenti del Pd, che si sono precipitati all’ufficio di Ragioneria per annunciare la propria “rinuncia” alle somme aggiuntive, non verrà premiata con un encomio pubblico, né con un trafiletto sul quotidiano locale.
Fabio Venezia, coraggioso sindaco di Troina, aveva denunciato un comportamento sui social: “Un collega mi ha deriso dicendomi che sono stato uno stupido a rinunciare a circa 40 mila euro da qui ai prossimi cinque anni; probabilmente lo sono, ma preferisco, alla materialità del dio denaro, la forza dei principi che hanno da sempre animato il mio impegno in politica; ma soprattutto preferisco continuare a guardare negli occhi i miei concittadini e i miei elettori senza avere l’imbarazzo di abbassare lo sguardo. E questo per me non ha prezzo!”. Eppure Venezia, come gli altri suoi colleghi, continuerà a guadagnare oltre 7 mila euro d’indennità, più la diaria (fermo restando il tetto massimo complessivo di 11.100 euro). Non è certo colpa sua. Ma Cracolici, suo collega di partito, è stato fra i pochissimi a tenere la barra dritta, evitando di barattare un diritto con uno scroscio di applausi che non avrebbe, comunque, portato a nulla.
“L’unico modo autentico per rinunciare all’adeguamento – fa sapere Valentina Chinnici, parlamentare neofita del Pd – è intervenire con una nuova legge. Anche l’emendamento presentato nella notte della Finanziaria da Cateno De Luca non aveva il parere del ragioniere generale, che invece era obbligatorio”. Populismo a doppia mandata. Che ha retto finché ha retto, costringendo molti parlamentari a precipitose arrampicate sugli specchi. Nuccio Di Paola, esponente del M5s e del Consiglio di presidenza (che ha deliberato il bilancio dell’Ars e di conseguenza l’adeguamento Istat), ha dichiarato di non essersi reso conto della portata dell’aumento: “Non mi ero accorto della percentuale”, ha detto a Repubblica. Altri, in aula, non hanno nemmeno fatto in tempo a controllare: la relazione integrativa, infatti, sarebbe giunta sul tablet dei deputati una manciata di minuti prima del ritrovo in aula. Non c’era il tempo di spulciare tutto. Nello Dipasquale, un altro di quelli che aveva deciso di rinunciare all’aumento, e componente del collegio dei questori, però ci crede poco: “Chiunque dica di disconoscere l’adeguamento Istat, evidenziato nella relazione di accompagnamento al bilancio, non è in buona fede. O, peggio, non legge gli atti che si votano in Assemblea”.
In questo scaricabarile infinito e un po’ stucchevole, sono stati depositati all’Ars un paio di proposte (uno di Fratelli d’Italia, il partito che s’era pentito per primo, sotto le pressanti richieste romane) per annullare l’effetto della legge del 2014: basterà? Il segretario generale dell’Assemblea s’è preso qualche giorno di tempo per rispondere. Ma già da questo mese i deputati vedranno lievitare le proprie buste paga: l’unica exit strategy è devolvere una parte della cifra in beneficenza o per progetti di pubblica utilità. Magari senza sbandierarlo ai quattro venti.
Nelle notti tormentate del Bilancio, anche i sindaci hanno portato a casa un discreto malloppo. Grazie a un emendamento del governo, che ha stanziato 6 milioni, a tutti i primi cittadini è stato riconosciuto un aumento delle indennità. Ma nessuno ha protestato, dal momento che – anche in questo caso – si tratta di un adeguamento agli stipendi dei colleghi del resto d’Italia. Per una volta la Sicilia ha evitato di strafare. Anche se, come rivela il Giornale di Sicilia, lo scatto economico ha riguardato anche gli assessori e, soprattutto, i presidenti del Consiglio comunale, che vedranno la loro indennità equiparata a quella dei vicesindaci. A Palermo Giulio Tantillo potrà beneficiare di 3.600 euro in più al mese. Mentre nelle città dai 50 ai 100 mila abitanti, il bonus è nell’ordine dei 1.000 euro. Restano indietro solo i consiglieri comunali, anche se un disegno di legge ad hoc – per agganciare i gettoni di presenza ai guadagni di sindaci e assessori – è già al vaglio della commissione Affari istituzionali dell’Ars.
I sindaci delle tre città metropolitane, nel frattempo, vedranno la propria indennità equiparata a quella del presidente della Regione: percepiranno circa 14 mila euro al mese. La notizia che i 6 milioni stanziati dal governo regionale non sarebbero bastati a garantire gli aumenti, alla fine si è rivelata una boutade. “La norma nazionale – spiega al Gds Paolo Amenta, nuovo presidente dell’Anci – prevede che il primo anno scatti un aumento del 68%. La somma stanziata dall’Ars copre la spesa per il 57%. E tuttavia questo budget arriverà realmente nelle casse solo a marzo, visto che la Finanziaria è stata appena approvata e non ancora pubblicata. Quindi gli aumenti si applicheranno solo da aprile a fine anno. E dunque il budget dovrebbe bastare a coprire la spesa senza attingere ai bilanci comunali”. Per piangere miseria bisognerà ripassare nel 2024.