Un bus chiamato delusione

Sono un velleitario. È la mia condanna. Vivo di velleità e di sogni mal riusciti, complice questa mia smania di viaggiare, esplorare, capire. Sono un velleitario perché ho l’ardire di riprodurre la mia vita di là, di quando viaggio, anche qua dove vivo. Salvo rendermi poi conto che sono solo un poveraccio, e voi con me, a cui non resta che accettare la sconfitta e adeguarsi. La storia minima di oggi è la seguente. Devo portare mia figlia dal dentista, l’appuntamento è per le dieci ed escogito l’idea del secolo. Andiamo in autobus, io, la bambina e mia moglie. Che bello, tutti insieme come se fossimo a Bordeaux o a Valencia, ti ricordi di Bordeaux amore mio? Il tram che passa ogni cinque minuti e anche lo spostamento da un quartiere all’altro diventa parte del viaggio, e lo diventa così tanto che avresti pure voglia di salire e scendere in continuazione senza fermarti mai.

Mia moglie è perplessa ma io mi sono svegliato ottimista, vedrai che sarà una figata. Ci dirigiamo con la fiducia di chi fa il turista a casa propria alla fermata dei bus di piazza Indipendenza. Guardo il cartello, sorvolo sulla fermata Donizzetti scritta con due zeta e memorizzo i numeri che mi porteranno a destinazione: 118, 104 e credo 108. Aspettiamo sotto il sole estivo assieme ad altre persone, c’è pure una famiglia francese con una bambina sul passeggino. Non c’è una panchina ma vabbè, che vuoi che mi freghi della panchina. Sono le nove e venti, ho un sorriso stupido sulla faccia e la velleità di chi crede di essere a Siviglia. La bambina corre lungo il marciapiede, le abbiamo messo in mano un pupazzo per tenerla buona ma mia moglie mi guarda perplessa, però insomma lo sapete come sono fatte le donne, non ripongono fiducia nei maschi per partito preso.

Venti minuti e nessuna traccia di nessuno dei tre autobus. Sembra la storia di Lampada Osram di Baglioni, ora lui arriva, ora vedi che arriva, chiudo gli occhi, conto fino a tre e me lo vedo davanti e poi non arriva mai. Il tempo passa e mia moglie fa il segno dell’orologio. Vedrai che arriva amore mio, siamo la capitale della cultura, il New York Times scrive che viviamo in una figata di città, deve arrivare per forza. Restiamo fiduciosi, d’altronde siamo in una zona nevralgica (piazza Indipendenza) e andiamo in un’altra zona nevralgica (via Libertà), mica allo Zen o al Villaggio Santa Rosalia. Quaranta minuti e ancora niente, sono già le dieci e dovremmo già essere dal dentista. Comincio a denunciare segnali di insofferenza pure io. I francesi invece se ne fottono, ieri si sono qualificati per la finale e magari avranno pure la visione d’insieme, non fanno testo. Per loro è folklore. Li guardo e li prenderei a calci. Ma io sono il peggiore dei nemici della contentezza, limite orribile in questo Evo di fiducia e di grandi cambiamenti.

Alle dieci e dieci chiamo il bar, dico a Michele di prendere la macchina e di raggiungerci alla fermata per accompagnarci dal dentista, sempre che nel frattempo il mio amico Felice (il dentista appunto) non abbia preso paletta e secchiello e se ne sia andato a San Vito Lo Capo. Mia moglie intanto ha perso la pazienza, mi dice senza dirmelo che sono un coglione perché certe cose a Palermo non le puoi fare. So che ha ragione, certo che ha ragione, ho un senso di colpa che mi divora, mi butterei sotto un autobus se solo passasse. Facciamo una litigata epocale e la scampagnata dell’allegra famigliola che credeva di essere a Lione si trasforma in un disastro. Mi consolo pensando che potrebbe andare peggio se piovesse, ma per fortuna non piove. Perché noi c’abbiamo il clima, un’incrollabile fiducia nel futuro e Manifesta. Alla faccia dei nemici della contentezza come me.

Francesco Massaro :

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