Forse questa vicenda della paralisi dello Stretto di Messina, ridotto a un imbuto impraticabile, bisognerebbe riassumerla dall’inizio e spiegare che un vero inizio non c’è. L’ultima stretta di Giuseppe Conte sulle fabbriche, giunta poche ore dopo il divieto sistematico di spostarsi da un comune all’altro (per effetto di un’ordinanza firmata dai Ministri dell’Interno, Lamorgese, e della Salute, Speranza) ha mandato nel panico centinaia di siciliani, che si sono ritrovati nei loro bei paesini a rischio del Nord Italia – ma non tutti: una truppa di 14 siracusani, che lavoravano per l’Eni, sono rimasti bloccati a Taranto – senza un lavoro e talvolta con la necessità, sancita da alcune ordinanze regionali (come in Lombardia) di dover lasciare il proprio B&B entro tre giorni. Sarebbero rimasti senza casa, senza lavoro e probabilmente senza un euro.
Cosa fare, quindi, se non provare a tornare in Sicilia, cioè casa propria, e mettersi in quarantena? Non sono forse questi i “motivi di necessità” sanciti dall’autocertificazione che continua a cambiare giorno dopo giorno? Eppure qualcosa non funziona. Perché la regolamentazione dello Stretto è assai equivoca. Giorni fa – ma nell’epoca del virus qualsiasi tentativo di misurazione rischia di rivelarsi insidioso – il ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, aveva sancito che i traghetti carichi di passeggeri (le merci sono state smistate al porto di Tremestieri) potessero effettuare quattro corse al giorno da Villa San Giovanni a Messina, e sempre dalle 6 del mattino alle 9 di sera. Accesso garantito a medici, forze dell’ordine, forze armate e lavoratori. Cioè ai cosiddetti pendolari, che lavorano in Calabria ma vivono (e dormono) a Messina. Poi Musumeci ci ha messo il carico, imponendo a chi volesse attraversare lo Stretto di far pervenire una richiesta alla Regione via mail.
Infine, vedendo che non funzionava un bel niente e che fosse presente “soltanto una pattuglia della polizia per i controlli ai pullman e alle automobili in attesa di imbarcarsi sui traghetti per la Sicilia”, lo stesso Musumeci ha chiesto e ottenuto che parte dell’esercito impegnato nell’operazione “Strade Sicure” venisse smistato anche su Messina, al fine di potenziare i controlli laddove (con risultati modesti) era stato impiegato il Corpo Forestale della Regione. La prova del nove scatta domenica sera, dopo la mezzanotte: una foto con centinaia di auto incolonnate a Villa San Giovanni viene diffusa dall’imprudente presidente della Regione su Facebook, sollevando panico e indignazione tra i follower. Assieme a una precisazione: “Noi siciliani non siamo carne da macello”. Un modo assai incisivo, per dire: ma gli ingressi a Messina non erano contingentati? E i controlli a Villa chi li fa?
Mentre Musumeci cerca di capirci qualcosa, e nel frattempo si lascia scappare un comunicato di due righe dando dell’irresponsabile al Ministro dell’Interno, il sindaco di Messina, Cateno De Luca, irrompe sulla scena. E lunedì sera – mentre su Facebook lo seguono in diretta oltre 150 mila persone – si dirige alla Rada San Francesco e minaccia di bloccare tutto. In realtà istituisce un checkpoint “istituzionale”, convocando la giunta proprio lì dinnanzi, e costringe passeggeri straniti ad abbassare il finestrino e dichiarare i motivi della visita in Sicilia. Ma dal traghetto sbarcano appena ventisei macchine (di cui appena tre irregolari). “Hanno capito l’antifona e sono rimasti a Villa San Giovanni”.
In realtà, sulla sponda calabrese dello Stretto erano rimaste una quarantina di auto, che nelle ore si sono moltiplicate. Duecento persone che vorrebbero rientrare ma, a meno di miracoli, non potranno farlo. Troppo casino, troppi riflettori, troppi mugugni. Talvolta un linciaggio mediatico vero e proprio, come quello che si è scatenato sui tre francesi che a bordo di una “Renault scassata” sono riusciti a raggiungere Acitrezza. Non erano “untori”, bensì artisti di strada rimasti in mezzo a una strada, dato che non riuscivano più a esibirsi. Mentre accadeva tutto questo, e De Luca aveva irrimediabilmente strappato la scena a Musumeci (“Vogliamo te presidente della Regione”, è stato il commento più frequente al suo live), il governatore viene smentito sui numeri dal Viminale e fa un passo indietro: “I controlli sono tornati e gli sbarchi sono in diminuzione”.
E s’inventa l’esame di riparazione: mettere in quarantena – in Calabria, va da sé – tutti i siciliani rimasti bloccati in banchina a Villa San Giovanni, per quattordici giorni. Spesati dalla Regione siciliani: “Il mio pensiero va ai bambini, che hanno già trascorso una notte in macchina e non hanno alcuna colpa”. Mentre gli altri – i genitori s’intende – sapevano bene di non poter attraversare. Hanno fatto i furbi, volevano tornare a casa a tutti i costi. Nella loro amata Sicilia, dove la sanità è inefficiente e il virus rimane uno spauracchio insopportabile. Dove le mascherine non ci sono e i posti letto appaiono sempre pochi. Dove si prega il buon Dio di limitare i contagi. Ma dove quei pochi segnali dati dalla politica sopravvivono in uno show insulso e in una lotta feroce fra istituzioni. Una magra figura che infiamma gli animi, ma difficilmente porterà a qualcosa nella lotta al nemico invisibile.
Ps: il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, ha preso in mano la situazione e sta scortando personalmente, “con l’ausilio della Polizia Municipale, della Polizia Metropolitana, della Guardia Costiera e della Questura di Reggio Calabria le prime 150 persone, tutte residenti in Sicilia, che rientreranno a casa dal porto di Reggio per motivi di sicurezza. Finalmente questa assurda situazione si è sbloccata grazie all’intervento dei Ministri Lamorgese, De Micheli, Boccia e del Presidente dell’Anci Decaro. Trovo sinceramente vergognoso – ha proseguito il sindaco reggino – che ancora rimangano 80 persone in Calabria perché chi di dovere non è capace di assumersi la responsabilità di decidere. La politica è una cosa seria, non è uno show. Le persone non si respingono come pacchi”. Un altro schiaffo ai siciliani. “Finalmente – ha concluso Falcomatà – sblocchiamo una situazione che ha messo in discussione la dignità di ogni essere umano. Non è possibile che più di 200 persone, tra le quali tanti bambini, siano lasciate per quasi 36 ore su una banchina portuale, senza possibilità di andare in bagno, senza viveri, ostaggio di istituzioni incapaci di far rispettare le loro ordinanze e i loro decreti”.