Sembra una scena di “Ombre rosse”, ottant’anni dopo. L’assalto alla diligenza è appena cominciato. La diligenza è quella dei teatri lirici e di prosa, delle orchestre, nelle loro varie formulazioni di fondazioni o enti, ma anche dei musei, delle scuole di formazione artistica, delle accademie –, al posto degli Apache di Geronimo c’è la classe politica siciliana, in sella a cavalli questa volta veloci come saette, le prime frecce sono scoccate, c’è chi è già rimasto ferito ma spera di cavarsela in extremis tamponandosi magari con un lembo di camicia strappata o con un fazzoletto come gli eroi del film di John Ford, c’è chi ci appena lasciato la pelle perché viaggiava magari in cassetta a fianco del vetturino e dunque più vulnerabile nonostante avesse mandato a segno più colpi con la sua Winchester, la carabina che non fa mai cilecca.
E’ la cultura, bellezza. E’ il nuovo (ma non troppo) acquario nel quale nuotano felici presidenti, assessori, sindaci e quanti altri, il mantra quotidianamente recitato, anche più volte al giorno, prima e dopo le giunte e i consigli, la resuscitata magnifica ossessione. Un balletto di nomi e di poltrone, di consonanze politiche e di attrazioni fatali, di “do ut des”, di gioco delle tre carte, di “questo a me e quell’altro a te”, di strette di mano trasformate in morsi di serpente. Soltanto in secondo piano le competenze e i risultati raggiunti, anzi, più che in secondo piano, mettiamoli sullo sfondo, quelli, per favore, ché coi numeri si fa presto a gettare polvere negli occhi della gente facendo credere che la polvere sia cipria della migliore marca.
I “colpi” sono quelli dei finanziamenti il cui rubinetto viene aperto o chiuso alla bisogna. Ma la necessità, in questi ultimi mesi, è parsa più strettamente politica che programmatica, un riposizionamento di pedine (intese come persone) che ha aperto o riaperto la partita in questo o in quel posto. Per un Giorgio Pace defenestrato in un battibaleno dall’Orchestra Sinfonica Siciliana, c’è un Roberto Alajmo tenuto a bagnomaria dal simil-bando utile a cercare un nuovo direttore artistico per il Biondo di Palermo, per un Francesco Giambrone che da blindatissimo sulla scena lirica del capoluogo (visti i lusinghieri risultati raggiunti al Massimo) è passato a “semi-blindato”, ci sono i vertici del Centro Sperimentale di Cinematografia (sezione Sicilia, quella del documentario e docu-fiction) il cui unico rubinetto rimasto aperto sembra quello del gas dal momento che proprio la Regione vorrebbe forse defilarsi dall’impegno con la Scuola Nazionale di Cinema probabilmente ritenuto non più soddisfacente anche sul piano dell’immagine.
In questi ultimi mesi proprio la Regione ha di parecchio assottigliato il flusso (“non è più tempo di vacche grasse”, Musumeci dixit) perché è quasi sempre da quello che dipende la sopravvivenza di un’istituzione e dunque di un sovrintendente, di un direttore artistico, di un amministratore, di un consulente o commissario ad assegno superior o standard. Trecento mila euro di contributi in meno da qui, un milione in meno da lì, e quest’altro, se da tot passa a zero, chi se ne accorgerà? Ma nonostante il clima di austerity, l’interesse della classe politica è per adesso mirato tutto lì, su quella magica parolina, cultura. Nonostante il perpetuo disavanzo, nonostante l’esercizio provvisorio che tutto è tranne che provvisorio, nonostante l’avviso sia il “bambole, non c’è una lira” dei vecchi capocomici alle ballerine di fila, la cultura è risbucata fuori come l’unica (e forse ultima) occasione, la vetrina utile a dar sfoggio di sè (vedi Palermo e “Manifesta” che nonostante non abbia portato a casa un bottino considerevole è comunque indicata come un’esperienza di cui si avrà nostalgia), la formula non troppo segreta per ridar lustro a un’isola che rischia forse di non averne più.
Ma, al di là di ogni nobile intenzione, la cultura è diventata piuttosto il paese di Bengodi, il tappeto sotto il quale nascondere la polvere delle troppe cose che non vanno, e soprattutto il terreno sul quale continuare a coltivare la cara, benevola, generosa pratica del sottogoverno ormai impossibile da mettere in atto con altri settori produttivi e di investimento (l’industria, il turismo, l’agricoltura, i servizi pubblici o semipubblici), con gli istituti, gli enti, le compartecipate ad essi associati, carrozzoni ormai cigolanti quando non già estinti, un tempo dispensatori di posti di potere a latere, grandi mammelle una volta gonfie di miliardi e adesso rinsecchite come quelle di una balia asciutta e tenute in vita solo per opportunità politico-burocratica.
E dunque via alla quadriglia, via alla grande danza delle poltrone e delle cariche. Come invitava con voce stentorea il capoballo? “Changè la dame!” Solo che questo, più che un gioioso salon de bal, sembra davvero quel pericoloso territorio Apache tra l’Arizona e il Nuovo Messico. Occhio alle frecce!