Trovarsi a disfare ogni giorno la tela dei suoi assessori o, peggio, dei loro dirigenti, deve essere un lavoraccio. Ma è accaduto più volte: dallo scandalo della parcella d’oro per gli avvocati Russo e Stallone passando per il caso Cannes e, dulcis in fundo, per l’aggiudicazione di una fiera sportiva a Rcs Sport. Senza bando, va da sé. Ma quel lavoro diventa impossibile se sei il presidente della Regione e devi pensare ogni giorno a conservare gli equilibri precari che tengono i piedi i tuoi rapporti: con la squadra di governo, con la burocrazia, con il tuo partito, con i siciliani. A Renato Schifani, complessivamente, non sta riuscendo granché. Il presidente è un accumulatore seriale di nemici – come evidenzia il titolo in prima del Giornale di Sicilia di ieri – che, in qualsiasi momento, gli si possono rivoltare contro. Ma per quanto ancora riuscirà a incassare?
Gianfranco Miccichè. Il primo della lista, hors catégorie come dicono sulle vette del Tour de France, è senza dubbio l’ex commissario regionale di Forza Italia. All’indomani delle elezioni andò a trattare con Schifani la spartizione degli incarichi – come si fa sempre fra alleati dopo un successo elettorale – ma ottenne in cambio un due di picche. O meglio, uno sfregio. Non solo il presidente si rifiutò di assegnare la sanità a qualcuno dei suoi uomini, o a lui medesimo; ma scelse una figura di basso profilo e scarso gradimento: la “tecnica” Giovanna Volo. E’ stato l’inizio della fine, fra insulti sui giornali e dure reprimende in aula. Il mascariamento di Miccichè è proseguito a marzo, quando dopo aver tentato invano di ottenere la sua testa da Berlusconi, Schifani annunciò una diaspora da Forza Italia se il fido Gianfranco fosse rimasto alla guida del partito. Confinato al Gruppo Misto all’Ars, umiliato con la rinuncia ai suoi colleghi più cari, la rivincita dell’ex vicerè (forse) sarà servita fredda: l’endorsement al progetto di Cateno De Luca è una prima prova muscolare, che stavolta non dovrebbe consumarsi in solitaria.
Marco Falcone. Il principe è diventato rospo molto in fretta. L’assessore all’Economia ha indicato la rotta a Schifani durante la prima parte della legislatura. Ha lenito le sue ferite di fronte al congelamento della parifica da parte della Corte dei Conti, che ebbe un pessimo giudizio sull’operato del suo predecessore (vi dice qualcosa Gaetano Armao?). Ma in occasione della prima Finanziaria il rapporto si è lacerato, fino a smontarsi come panna. La colpa di Falcone? Aver concesso ampi margini di manovra alle opposizioni (in cambio di una riduzione dei tempi sull’iter parlamentare). Da lì è stata una folle corsa verso il precipizio: le impugnative dello Stato, il commissariamento con Armao sui fondi extraregionali, lo scontro funesto sulla riorganizzazione della Camera di Commercio del Sud-Est, e infine, lo “scippo” della delega alla Programmazione, che Schifani ha avocato a sé. Guai, però, a farsi sfuggire un altro, piccolo particolare: la rinuncia a un posto d’assessore a Catania dopo aver eletto cinque consiglieri. Quel posto, che sulla carta spettava alla corrente Falcone, è finito a Salvo Tomarchio, componente di pregio della corrente avversa: quella vicina a Nicola D’Agostino.
Antonio Tajani. Per restare nell’agone di Forza Italia, specie nell’ultima fase di vita del Cav., non è passata inosservata la forte contrapposizione fra il governatore siciliano e il Ministro degli Esteri. Si contendono la supremazia nel partito. Lo hanno fatto a suon di acquisti (Schifani ha preso Cancelleri, Tajani ha replicato con la Chinnici) e di dichiarazioni sui giornali. “Il rilancio di Forza Italia? Ben venga, purché non sia fatto seguendo la logica della porta accanto – disse Schifani a Repubblica -. Non abbiamo bisogno di una Forza Italia con una classe dirigente del Nord e con i voti che vengono dal Sud. E’ uno strabismo che va corretto”. La replica del Capo della Farnesina è arrivata pochi giorni fa sul Corriere della Sera: “Sempre stato contrario alle correnti, non credo ai personalismi ma alle persone e sono sicuro che tutti avranno qualcosa di importante da fare (…) Come dimostrano i capigruppo, c’è già una rappresentanza Nord, Sud e Centro. E ripeto: ci sarà un ruolo per chiunque voglia lavorare”. Lavorare, non primeggiare. Né litigare.
Roberto Lagalla. Altro excursus rispetto alle vicende torve del governo regionale. Tramite il suo delegato Marcello Caruso, che è commissario di FI in Sicilia, Schifani ha disturbato più volte Roberto Lagalla per ottenere a Palazzo delle Aquile ciò che lui non riesce a fare a Palazzo d’Orleans: cioè un rimpasto. Gli ha chiesto, e ha insistito in tal senso, di fare fuori gli assessori Mineo e Pennino, che nell’immaginario collettivo rappresentano ancora “gli amici di Gianfranco Micciché”. Lagalla, però, non sopporta le pressioni e i ricatti e l’ha fatto presente chiudendo il telefono in faccia. Forse si arriverà a un restyling, ma dopo aver approvato il Bilancio.
Mimmo Turano. Storia arcinota. A Trapani l’assessore alla Formazione professionale non è riuscito a inculcare a un gruppo di amici la passione a prescindere, una forma di agnosticismo, per il centrodestra unito. Quelli sono andati con Tranchida, del Pd, e hanno contribuito alla sua vittoria. Per questo Schifani, già in campagna elettorale, aveva annunciato fuoco e fiamme nei confronti del buon Mimmo: lo vuole fuori. Ma Sammartino non è d’accordo: il prossimo passo sarà litigare con il suo vice?
Francesco Scarpinato. Altra storia che viene da lontano. Pressappoco dalla vigilia dell’insediamento della giunta, quando l’allora consigliere comunale di Palermo, bocciato alle Regionali, ottenne l’investitura dall’alto e si impadronì del Turismo. Accolto con la puzza sotto il naso, la situazione peggiorò con i fatti di Cannes e con l’affidamento da 3,7 milioni alla Absolute Blue, in piena continuità amministrativa, per l’organizzazione di uno shooting fotografico su donne e cinema. L’atto fu ritirato in autotutela dal presidente della Regione perché l’Avvocatura generale appurò che era necessario un bando di gara. Scarpinato, salvato in corner dai patrioti romani (Messina e Lollobrigida), ottenne l’investitura ai Beni culturali. Pochi mesi, però, e ci risiamo: un altro affidamento a Rcs Sport, sempre senza bando, e la ferita riprende a sanguinare. Ai tempi c’era ancora lui, l’ex ufficiale dell’esercito. Che nel frattempo ha confabulato con De Luca per dare una mano ai conti del Comune di Taormina, aprendo una settimana di passione all’Ars. Hanno persino una foto insieme. Alea iacta est.
Francesco Lollobrigida e Manlio Messina. L’uno, Ministro per le Politiche agricole. L’altro, vicecapogruppo di Fdi alla Camera dei Deputati. Tengono le redini di Fratelli d’Italia dalla Capitale. Non hanno preso bene le ingerenze di Schifani sul turismo, tanto meno il tentativo – respinto con perdite – di cacciare l’allievo prediletto (Scarpinato) dalla giunta. Uno si è persino concesso il lusso di affondare il governatore in tivù e non essere redarguito. Spavaldi e duri a morire.
Roberto Di Mauro. E’ uno degli assessori meno in vista, ma certamente uno dei più esperti. Fin dall’inizio della legislatura ha capito come va il mondo. Dopo aver valutato eccessivo l’investimento economico per i termovalorizzatori (tanto osannati in campagna elettorali da Schifani) ha denunciato un bug nelle procedure e segnalato alcune anomalie da sanare. Forse non se ne parlerà mai più. In seguito ha messo dei paletti alle autorizzazioni concesse a cuor leggero per la realizzazione degli impianti rinnovabili (che Schifani arriverà addirittura a sospendere in attesa di qualche sovvenzione romana). Il braccio destro di Lombardo non fa sconti. E in quanto a critiche è difficile da arginare.
Cateno De Luca. Siamo solo all’inizio di cinque anni – se dureranno entrambi – di passione. Scateno ha anche trovato una modalità per pungere meglio che dai banchi dell’opposizione: diventare sindaco (e simbolo) di una città sovraesposta come Taormina. Minaccia di fargli chiudere il Teatro Antico (o comunque la via d’accesso), abbandona la Fondazione TaoArte, lo sbeffeggia per il mancato invito alla cerimonia antimafia per Borsellino, gli imputa interessi privatistici e di stampo politico-mafioso, stringe accordi con Micciché. Serve altro?
Gaetano Galvagno. Ha prestato il fianco a De Luca e alle opposizioni perché il presidente dell’Assemblea è il garante di tutti. Niente ‘no’ pregiudiziali. Ma nella notte di Taormina e dei lunghi coltelli, è a lui che Schifani si sarebbe rivolto – come da ricostruzioni giornalistiche – per minacciare le dimissioni. L’emendamento è stato accantonato. Ma i rapporti si sono raffreddati già da prima. Da quando il giovane presidente dell’Assemblea fece notare a tutti che l’Ars si muove a scartamento ridotto perché “non c’è carne al fuoco”. Alla griglia avrebbe provveduto lui, alla materia prima però… Da qui l’ultimo sfregio: “Con te non tratto più io, mando il mio vice Sammartino”, fresco di delega ai rapporti col parlamento.
Antonello Cracolici. Il presidente della commissione Antimafia, del Pd, ebbe l’ardore di ricordare il coinvolgimento di Schifani in un filone dell’inchiesta Montante, nel corso di un’intervista; e alla prima seduta ottenne la diserzione di tutti i commissari del centrodestra. In aula, nel corso dell’ultima seduta, ha detto che il presidente non si fida più dei suoi assessori. Quale “punizione” lo attende?
Aurelio Angelini. L’ex presidente della Commissione Via-Vas, quella che rilascia le autorizzazioni ambientali, è stato il primo agnello sacrificale dell’odiata burocrazia siciliana. E’ stato costretto a dimettersi perché, ha spiegato lui stesso, Schifani avrebbe delegittimato la “funzione tecnico-giuridica-ambientale della Cts, colpendo in modo diffamatorio l’alta professionalità dimostrata dai suoi commissari”. Peggio ancora, con l’obiettivo “di mascariare”. Inutile dire che la commissione è stata oggetto, in pochi mesi e in tempi record, di una profonda rivisitazione “nell’ottica della semplificazione delle procedure ma anche del rispetto dell’ambiente e della legalità”. Parola di Palazzo d’Orleans.
Menzioni d’onore: la ditta Santa Chiara di Favara e il dirigente regionale all’Energia, Maurizio Costa, reo di non aver vigilato sui lavori di riqualificazione del Castello Utveggio. La prima se la caverà con una penale di 1700 euro per ogni giorno di ritardo nella consegna; il secondo con una lavata di capo che ha poco a che fare coi toni istituzionali: “Il direttore generale Maurizio Costa stamattina – sottolineava il presidente della Regione lo scorso 30 marzo – ha dichiarato di essere totalmente all’oscuro dell’andamento dei lavori e dei termini contrattuali. Attiverò immediatamente tutte le procedure finalizzate a individuare le responsabilità”. L’ha trattato peggio di Ita e Ryanair, pensate un po’.