Tanti nemici, tanto onore. E’ così che Gianfranco Miccichè finirebbe col declinare il momento storico che lo vede al centro di numerosi campi di battaglia. Alla Regione, dove è in combutta con Gaetano Armao, il vice-governatore di cui Forza Italia, e non solo Micciché, ha chiesto la rimozione; a Catania, dove il sindaco Salvo Pogliese, dopo anni di lunga militanza, si è staccato dal partito per l’impossibilità di far coincidere le sue posizioni con quelle del coordinatore regionale; e all’interno della coalizione, dove Micciché si trova a contrastare, un giorno sì e l’altro pure, le esternazioni di Saverio Romano e Vincenzo Figuccia, fino all’altro ieri alleati, ora coi coltelli affilati.
Tutti contro il leader che, nonostante diatribe e spaccature, ha portato Forza Italia al 17% alle Europee. Numeri che Berlusconi si sogna (il dato nazionale è più che dimezzato). Per questo nella ristretta cerchia del Cavaliere c’è ancora spazio per Miccichè: una decina di giorni fa l’ha voluto ad Arcore per un’attenta analisi del voto e l’occasione è tornata utile per riparlare dei nuovi assetti del partito – è stata accolta bene dal leader siciliano la scelta di Mara Carfagna come coordinatrice nazionale – e di quello che sta accadendo in Sicilia. Miccichè ha chiesto e ottenuto a Berlusconi un incontro con Musumeci, per perorare la causa della cacciata di Gaetano Armao, totalmente in rotta con gli azzurri al di qua dello Stretto.
Armao rappresenta l’emblema di una visione anarchica (e monarchica) di Forza Italia. Dove c’è uno che comanda – Berlusconi – e tutti gli altri si muovono come vogliono. Perché se così non fosse, e regnasse l’ordine, Armao si sarebbe accodato ai colleghi di partito e, alle ultime Europee, avrebbe sostenuto Giuseppe Milazzo, il capogruppo di FI all’Ars, e non un candidato sardo come Cicu. Il passo di lato, in realtà, aveva radici più datate: alle Amministrative di Gela, nell’aprile scorso, il vice-governatore, assieme alla compagna (e deputata alla Camera) Bartolozzi, aveva deciso di appoggiare il candidato della Lega contro Lucio Greco, sostenuto da Forza Italia e divenuto sindaco. Una provocazione studiata a tavolino. E sempre l’assessore non ha convinto – affatto – gli “ex” compagni di partito quando ha gestito la trattativa Stato-Regione, relativamente ai soldi da destinare alle ex province siciliane. Un bagno di sangue che ne ha segnato il fallimento e l’emarginazione, rendendone impossibile la permanenza sotto lo stesso tetto.
Armao è entrato a pieno titolo nella scuderia di Musumeci, che al suo vice non vorrebbe mai e poi mai rinunciare. Anche perché gli torna utile come ariete per scalfire Miccichè, da sempre troppo scomodo, al quale sta tentando di svuotare il partito dal di fuori (l’adesione di Genovese a “Ora Sicilia” ne è l’ultima testimonianza). Non sarà stato bello per il Cav sentirsi dire che uno dei suoi prediletti – è stato Berlusconi ad accompagnare Armao alla porta di Musumeci, quando l’attuale assessore al Bilancio si professava ancora leader degli indignati – ha tentato più volte di remare contro gli interessi di Forza Italia. Ma in politica non esiste riconoscenza, come lo stesso Berlusconi ha sperimentato sulla propria pelle. Ogni volta che ha lanciato un “delfino”, questo gli ha ringhiato contro: da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano, da Raffaele Fitto a Giovanni Toti (che aspetta con ansia il fallimento dell’ultimo tentativo di riunificazione del partito).
Una situazione che si avvicina a quella vissuta da Miccichè in terra sicula. Dove, al di là del nodo Armao, ne esistono degli altri, come detto. Il meno pruriginoso, poiché i protagonisti scorrono su rette parallele senza mai toccarsi, è legato al fronte etneo. Il sindaco di Catania Salvo Pogliese, che alla vigilia delle Europee sfoderava il sottopancia con su scritto “unico sindaco azzurro di una città metropolitana”, si è sganciato dal partito come atto di ripicca per la mancata candidatura di Giovanni La Via – fuoriuscito e poi rientrato in Forza Italia – al parlamento di Strasburgo. Ma, come ha spiegato il sindaco in più di un’occasione, quella era la classica goccia in un mare di problemi. In testa i migranti: “Micciché ha assunto posizioni in contrasto con quello che era il programma elettorale di Forza Italia alle ultime Politiche e ha preferito sedersi al tavolo della Boldrini e dei centri sociali” ha detto a Live Sicilia. Andando oltre: “Ma penso anche a questa specie di Nazareno 2.0 in salsa sicula al quale sta pensando, con l’apertura al Pd: una marmellata consociativa e anti-storica”. Troppo distanti per posizione e per cultura.
Mentre Pogliese saluta la fine di Forza Italia (“Per me è game over. Un partito destinato a morire”), chi ci si è aggrappato fino all’ultimo è stato Saverio Romano. Che ha utilizzato il bus dei forzisti – anche se il leader del Cantiere Popolare ha respinto l’appellativo di “ospite” – per le ultime Europee. Dove l’impegno di Romano è stato massimo e ha garantito alla lista oltre 70 mila preferenze. Chapeau. Ma i rapporti con Miccichè, solidissimi fino a qualche mese fa (il patto di Cefalù sembrava l’inizio della rinascita del centrodestra siciliano), si sono deteriorati nell’arco di una campagna elettorale. Pare ancora di sentirlo Milazzo: “Quelli di Romano a me e Gianfranco ci vogliono morti”. I toni si sono alzati e il gelo prosegue tuttora, a un mese dal voto. All’indomani della mancata elezione, l’ex Ministro dell’Agricoltura, che mantiene un filo diretto con Berlusconi, aveva commentato: “Il coordinatore regionale di Forza Italia ha condotto una battaglia personale piuttosto che incoraggiare un gioco di squadra e ha schierato tutto e il contrario di tutto contro di me con promesse di ogni genere: non credo ci sia nulla da festeggiare politicamente da parte sua”. Altro che moderati 2.0.
Il rapporto non si è mai ricucito. Come non s’è mai ricucito tra Miccichè e Vincenzo Figuccia, il deputato regionale dell’Udc che abbandonò Forza Italia alla vigilia delle Regionali del 2017. Motivando così la decisione: “Lascio Forza Italia dopo il duro e intenso lavoro fatto all’interno di un partito del quale non riconosco la conduzione in Sicilia”, dichiarandosi “incompatibile” con la linea di Miccichè e “del suo cerchio magico”. Figuccia e Micciché duellarono sulla questione delle pensioni d’oro non appena il primo fu nominato assessore all’Energia da Musumeci (finì col dimettersi dopo quaranta giorni). E duellano tuttora. Soltanto un abbraccio, alla vigilia di Natale, faceva pensare a un rifiorire dei rapporti: Miccichè prese sotto braccio Figuccia e Cesa, responsabile nazionale dell’Udc, durante un incontro a Palermo: “Semu una cosa sula, contro il populismo e il sovranismo” disse il coordinatore di Forza Italia, già presidente dell’Ars.
Di quell’abbraccio resteranno le macerie. Figuccia, che non ha deposto l’ascia nemmeno in campagna elettorale (dove l’Udc era “ospite” della lista azzurra), ha chiesto al “nemico” di dimettersi dallo scranno più alto di Sala d’Ercole, e di vergognarsi per la “resistenza” sui vitalizi. Si è spinto oltre, un mesetto fa, in seguito a qualche scaramuccia in aula: “La verità è purtroppo che fino a quando esisteranno questi personaggi in Sicilia questa terra non potrà essere salvata. Arroganza, supponenza e scarsa serietà, fanno così da cornice ad una scena che vede la Sicilia affondare tra le risatine e le marachelle di un Presidente dell’assemblea palesemente inadeguato”. E ha persino sostenuto Armao, reduce dal fallimento sulle ex province, non appena se n’è presentata l’occasione: “Uomo al di sopra di ogni rappresaglia”.
A questa storia manca una conclusione, che sarà il tempo a scrivere. Non mancano invece le analogie. Prendete Armao: somiglia tanto a Fini, un po’ meno pittoresco, che messo alle strette dal Cavaliere se ne andò dal Pdl sbattendo la porta (“Che fai, mi cacci?”). Pogliese aspira a un ingresso trionfale in un altro partito: Lega o Fratelli d’Italia, si vedrà. Romano è alla ricerca di un modello “centrista” che squarci il muro del populismo. Tempi duri. E Figuccia? Si barcamena tra l’Udc e impulsi regionalisti, che potrebbero condurlo fra le braccia di Musumeci. Resta Gianfranco Miccichè. Un classico che non passa mai di moda. Litiga con tutti, ma non si schioda. Con la benedizione del Cav.