La pacatezza non è più la cifra distintiva del presidente Musumeci. Che soprattutto nei mesi della pandemia, e per la verità anche un po’ prima, ha dissotterrato l’ascia di guerra. E inveito contro chiunque gli capitasse a tiro. L’esempio più fulgido è rappresentato dai dipendenti regionali. Una platea di circa 13 mila persone di cui il governatore, nell’ultima fase del suo “magistero”, ha avuto zero riguardo. Li ha bacchettati in ogni modo, umiliati pubblicamente, tacciati di grattapancismo. Attirando su di sé l’inimicizia dei sindacati e le accuse delle opposizioni, sempre pronte a sfiancarlo. Ma chissenefrega. Musumeci è andato avanti per la sua strada. Non gli interessano – a parole – le clientele elettorali (i dipendenti, più famiglie, garantiscono voti a iosa): è più importante ripristinare una cultura del lavoro che a molti manca. “Non avere il coraggio di dirlo è criminale. Io il coraggio ce l’ho” ha sentenziato giovedì pomeriggio, durante un evento in streaming organizzato dal Sole 24 Ore, senza nemmeno un pubblico in festa pronto ad applaudire.
Ma è chiara la strategia. Dare addosso ai dipendenti di turno – etichettati dai più come “lenti” e “scansafatiche” – risponde a una logica populista che a Musumeci dà, in prospettiva, più di quanto potrebbe togliergli. Così il presidente della Regione, alla smodata ricerca di consenso, ha deciso di accanirsi. La prima volta a Cefalù, durante un convegno di Diventerà Bellissima: “Loro lo stipendio ce l’hanno sicuro, direttamente sul conto corrente. Col Covid o senza Covid ce l’hanno accreditato. La burocrazia, non solo quella regionale, non ha capito che questo è un momento in cui bisogna alzare il sedere dalla sedia”. E ancora: “Se ne prendi uno e pensi di accompagnarlo alla porta ti trovi i sindacati pronti a difenderlo. Sindacati verso i quali abbiamo tutti rispetto, se la funzione fosse quella originaria, di difendere i diritti del lavoratore e non i diritti dei grattapancia a tradimento”.
E’ l’inizio di uno scontro letale, che si trascina alle Giornate dell’Energia, nella sua Catania. E’ il 18 luglio e il governatore, forte della propria coerenza, rimarca il concetto: “L’80% di loro si gratta la pancia dalla mattina alla sera – ha confermato Musumeci, riferendosi ai dipendenti – Ma non ditelo ai sindacati… Ora vogliono stare ancora a casa per fare il ‘lavoro agile’. Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Un assunto che sa tanto di luogo comune. Non basta la querela annunciata dai sindacati per redimere l’istituzione, che continua sulla falsariga di sempre. E dopo aver osteggiato in tutti i modi lo smart working – non tanto perché non crede nella potenza nel “mezzo”, bensì perché non ha fiducia in nessuno dei sottoposti – fa il possibile per rinviare le ferie e ordina il rientro in ufficio per la totalità dell’organico. Contravvenendo alle indicazioni di Roma.
Oggi il governo nazionale torna a battere sul tasto del telelavoro, costringendo Musumeci sulla difensiva, fiaccando il suo orgoglio da comandante in capo. Non resta che il contrattacco: “L’80% dei dipendenti regionali – ha ribadito una manciata di giorni fa – è assolutamente inutile alle funzioni programmatiche della Regione. Lo ripeto. Anche se siamo passati dall’80 al 70% grazie al cielo. Il mio obiettivo è di arrivare almeno al 50%”. Ma non quello, non ancora, di individuare il motivo di tanta ritrosia culturale. O di una tale esposizione al fancazzismo. Lui guida ma non dirige: sarà forse questo? “Qui non si fa un concorso dal 1991. Il più giovane ha 58 anni. Non è gente digitalizzata – ha detto Musumeci – non è gente abituata a lavorare in un contesto assolutamente diverso, competitivo, come richiede oggi la pubblica amministrazione”. In tutte le affermazioni ci sarebbe un pizzico di verità. Stroncata però da toni per niente solenni, e un po’ insoliti per le istituzioni.
Gli attacchi diretti, però, sono il marchio di fabbrica di Musumeci in questa legislatura. Uno, per il momento sommesso, è stato rivolto ai due dirigenti generali (Carmelo Frittitta, Attività produttive; e Vincenzo Falgares, Arit) che hanno mandato in onda il click-day. Nessun accenno, invece, a chi ha commissionato il servizio all’operatore telefonico pasticcione (Palazzo d’Orleans, cioè). E ancora, ai tempi in cui la Cassa integrazione in deroga era gestita dalla Regione (oggi ci pensa l’Inps), Musumeci si scusò parzialmente per il flop della piattaforma informatica, ma l’unico a farne le spese fu il povero Giovanni Vindigni, dirigente generale al Lavoro di fresca nomina. Non una parola per gli assessori di riferimento: Scavone prima, Armao adesso. Che si godono la vista da dietro il parafulmine del presidente. Le responsabilità, d’altronde, vanno cercate sempre più in… basso.
Non sono mancati, poi, i riferimenti piccati alla politica. Anzi, ai politici. Come quella volta in cui Musumeci, presentatosi in aula per assistere alla discussione sulla Finanziaria, utilizzò il pretesto di una richiesta “fastidiosa” – votare un emendamento col voto segreto – per dare addosso, volgarmente, a Luca Sammartino, deputato regionale di Italia Viva. Cioè il fautore della proposta (ammessa dal regolamento): “Lei dovrebbe vergognarsi – fu l’esordio, funesto, del governatore -. In un momento in cui tutta la comunità siciliana si aspetta chiarezza da questo parlamento, lei chiede di votare di nascosto. Si vergogni lei e chi asseconda la sua richiesta. Io abbandono l’aula, è un fatto etico al quale non posso assolutamente aderire. Mi auguro che di lei e di quelli come lei si occupino altri palazzi”. Sammartino era ed è sotto inchiesta per corruzione elettorale a Catania. Lo stesso collegio di Musumeci. Che i renziani tacciarono di squadrismo.
Non si tratta di un episodio isolato. Più volte, infatti, il presidente della Regione ebbe modo di accanirsi sui parlamentari. Come avvenne il 26 novembre dello scorso anno, con l’Ars impegnata a esitare la riforma sui rifiuti. Ma dopo la bocciatura dell’art.1 a causa di alcuni franchi tiratori (cioè componenti della sua stessa maggioranza) Musumeci andò in escandescenza, minacciando di non tornare a Sala d’Ercole fino all’abolizione del voto segreto: “Onestà è quando un deputato sa metterci la faccia. E non si nasconde dietro il voto segreto. Sia i deputati della coalizione che quelli della maggioranza hanno mostrato pavidità, cinismo e mancanza di coraggio. Adesso, fuori dal palazzo, chi dirà grazie per questo stop sulla legge dei rifiuti? Chi vuole bloccare questo disegno di legge?”.
Ma nel corso di questo lungo iter accidentato, non sono mancati i momenti di tensione nemmeno con Gianfranco Micciché e Claudio Fava. Il primo, il suo alter ego nella coalizione di governo, fu preso di mira a margine di un dibattito sulla questione finanziaria dell’ente, un anno fa: “Voglio sperare che questo parlamento possa essere guidato da un presidente che si sforzi oltre ogni limite di saper scindere la sua funzione di garante da quella di coordinatore del partito di maggioranza relativa”, fu l’offensiva di Musumeci di fronte al parlamento al gran completo.
Mentre nei confronti di Fava, già invocato dopo la debacle sulla monnezza, (“Dov’è finita la sua etica?”) si mosse inviperito a seguito dell’accusa di “imbarazzanti omissioni” sulla gestione delle discariche rivoltegli dal presidente della commissione Antimafia: “Il deputato Fava la smetta di usare un linguaggio cifrato, le mezze parole, gli ammiccamenti e le allusioni: un linguaggio che appartiene alla migliore tradizione della peggiore antimafia”, disse Musumeci. In generale il rapporto con l’Ars è sempre stato teso, specie con i due partiti di minoranza: “Spero che qualcuno dei deputati possa giustificare, davanti allo specchio e ai suoi figli, di aver percepito alla fine del mese 6.600 euro più 2.000 di rimborso per avere fatto il proprio dovere, anche stando all’opposizione”, è stata una delle dichiarazioni più incisive, pronunciata durante il dibattito d’aula sulle castronerie di Armao.
I rivali di Musumeci, però, abitano anche fuori da palazzo dei Normanni. A Roma, ad esempio, il colonnello Nello ha spesso puntato il dito contro la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, per la gestione dell’emergenza sanitaria a Lampedusa. Oltre che su Giuseppe Conte, per la sua “reazione” alla pandemia. Ha persino firmato un’ordinanza senza alcun presupposto giuridico – quella che imponeva la chiusura dei porti e lo sgombero degli hotspot – per aggiudicarsi la sfida dell’esibizione più populista. Un episodio che è tornato utile per creargli nuovi “nemici”: su tutti, la Chiesa. Era il 5 settembre 2020, Diventerà Bellissima si riunisce ad Agrigento. Parla Musumeci: “Non si chiedono perché la gente si allontana dalla Chiesa cattolica: quando si cerca un sacerdote e le persone trovano un gregario di Zingaretti e Di Maio a fare le prediche, qualche cattolico manda a quel paese i preti e decide di pregare per conto suo”. Una dichiarazione fiammante che ha provocato la reazione di molti, fra cui Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: “È penoso sentire definire gregari di questo o quel politico i sacerdoti che predicano il Vangelo di Cristo ‘senza se e senza ma’ – ha detto Mogavero -. Dovremmo brandire Vangelo e rosario e fischiare il Papa, urlando contro i migranti, per non urtare la sensibilità di chi pensa a respingimenti, rifiuto di soccorso e non accoglienza?”.
In questa lunga elencazione, però, non potevano mancare i magistrati. Ecco il pensiero di Musumeci su Maria Cristina Quiligotti, giudice della terza sezione del Tar di Palermo, dopo aver sospeso – in seguito all’impugnativa del Consiglio dei Ministri – l’ordinanza di metà agosto: “Qualcuno dice, ma è una “malalingua”, che è stato consulente del presidente Zingaretti che è il capo del partito più importante al Governo”. “Attaccare personalmente un giudice per una decisione non condivisa e mettere in discussione la sua autonomia – è stata la risposta dell’Anma, l’associazione nazionale magistrati amministrativi – è grave, perché così si contesta alla base l’indipendenza stessa della giustizia. La dottoressa Quiligotti è una servitrice dello Stato, ed è stata in passato consulente giuridica e tecnica in modo trasversale, anche del ministro della Lega Calderoli”.
Musumeci ha continuato a ritenere quella della Camera di consiglio del Tar “una sentenza già scritta”, com’era già scritta, in passato, la relazione negativa della Corte dei Conti sul Documento economico e finanziario di Armao. A metterci la firma sopra, questa volta, era stato il giudice Luciano Abbonato, ex assessore di Leoluca Orlando a Palermo: “Sono convinto che chi amministra debba essere al di sopra di ogni sospetto. Ma credo debba esserlo anche il magistrato che esamina l’operato dell’amministrazione. Ho saputo, ad esempio, che uno dei relatori del mio operato è un magistrato laico ex assessore di una giunta di centrosinistra nel comune di Palermo. Credo che in termini di opportunità qualche problema ci sia”. Musumeci, in fin dei conti, se la prende con tutti, tranne che con i suoi assessori. Tutto è lecito: gli errori nei conti, gli intoppi nelle procedure, la lentezza nell’operato. La squadra di palazzo d’Orleans, però, basterà ad espugnare la Regione per la seconda volta?