Il valzer delle commissioni all’Ars, per il presidente Schifani, ha rappresentato quasi un divertissement. Al pari della frattura di Forza Italia, a cui non sembra interessato neanche Berlusconi. I problemi stanno altrove, nel mondo reale. E riguardano la crisi asfittica della sanità, che fatica a garantire assistenza (vedasi l’affollamento dei pronto soccorso) e cura; il caro energia, che è impossibile attenuare in tempi brevi; ma soprattutto lo scenario cupo del 3 dicembre, giorno dell’udienza di parifica di fronte alla Corte dei Conti, quando il presidente della Regione capirà se e quant’è grave il “buco” lasciatogli in eredità da Gaetano Armao, ex assessore all’Economia; e quanto ne risentirà la prossima Legge Finanziaria, che il neo assessore al ramo Marco Falcone – ammirevole per dedizione e coraggio – ha promesso di approvare entro la fine dell’anno, senza dover ricorrere al tredicesimo esercizio provvisorio consecutivo.
E’ in quel luogo che Schifani dovrà fare i conti col passato. Non il proprio: l’ex presidente del Senato è sempre rimasto alla larga dalle questioni siciliane, specie di carattere amministrativo, dell’ultimo quinquennio. Ma di chi l’ha preceduto, quello sì. Pur avendo stima nei confronti di Musumeci e Armao – prima del passaggio di quest’ultimo al Terzo Polo – il governatore dovrà ammettere che qualcosa nei conti non torna. Altrimenti, in questa fase di preparazione che dura ormai da settimane, la Corte dei Conti non avrebbe messo a nudo, in una relazione di 600 pagine, il disappunto per una gestione “cieca” del bilancio regionale. I magistrati avevano sostenuto le stesse tesi anche in passato, arrivando a contestare in maniera feroce il rendiconto 2019, ma finito sub-judice (nonostante l’avvenuta parifica) per le modalità con cui si è deciso di coprire un mutuo con lo Stato: ricorrendo, cioè, ai capitoli del Fondo Sanitario che, invece, avrebbero dovuto garantire solo ed esclusivamente i Lea, i livelli essenziali di assistenza.
Questo modo di fare, denunciato dalla Procura regionale della Corte dei Conti, e dalla Consulta che ne ha accolto il ricorso (dichiarando incostituzionale l’articolo 6 della Legge di Stabilità ‘16, ai tempi di Crocetta) pone un problema di metodo – perché nessuno è mai intervenuto, negli anni a seguire, per correggere quella stortura normativa? – ma soprattutto di sostanza. Se la sentenza della Corte Costituzionale avesse un valore retroattivo, infatti, Palazzo d’Orleans dovrebbe recuperare altri 255 milioni che andrebbero a sommarsi alle somme già contestate, in altre sedi, dai giudici: poco più di un miliardo. Quest’ultimo capitolo fa riferimento a un altro contesto delicatissimo: ovverosia i fondi accantonati a copertura delle rate del deficit storico che la Regione non avrebbe saputo calcolare.
La possibilità di spalmare il disavanzo in dieci anni, infatti, è stato sancito da un accordo di finanza pubblica che Nello Musumeci e Giuseppe Conte, in qualità di ex premier, chiusero il 14 gennaio 2021 (nonostante fosse già stato definito, attraverso un decreto legislativo, a dicembre 2019) e che pertanto non poteva essere applicato retroattivamente. Armao l’ha fatto, avendo piena rassicurazione sull’iter romano. Ma ciò non basta secondo la magistratura, che mette in discussione l’impianto complessivo dell’operazione e “minaccia” di rimandare la questione alla Consulta. Falcone, che l’altro giorno assieme al ragioniere generale Ignazio Tozzo è rimasto riunito per quattro ore, coi giudici, in Camera di Consiglio, ha provato a mettere toppe un po’ ovunque. I giudici, ad esempio, hanno imputato al suo predecessore, Armao, di non aver presentato il Piano di rientro fissato dall’Accordo con lo Stato nei 90 giorni previsti. Il famoso “pacchetto di riforme” che la Regione si impegnava a promuovere in cambio della magnanimità romana sul periodo della spalmatura, vedrà la luce solo ad aprile 2021.
E per la verità conterrà alcune voci (e riforme) rimaste inevase. A partire dalla “completa attuazione delle misure di razionalizzazione previste nel piano delle partecipazione societarie”, passando per il “completamento e la definitiva chiusura delle procedure di liquidazione coatta delle società partecipate e in via di dismissione”. Tra la pretese dello Stato c’era inoltre “la riorganizzazione e lo snellimento della struttura amministrativa della Regione al fine di ottenere una riduzione significativa degli uffici di livello dirigenziale”, “il contenimento della spesa del personale in servizio”, la riforma dei Consorzi di bonifica e dei forestali, ma soprattutto il recepimento dei principi in materia di dirigenza pubblica, col superamento della terza fascia dirigenziale e l’inquadramento “nell’istituenda fascia unica dirigenziale, agli esiti di una procedura selettiva per titoli ed esami”. Di questi impegni, pochissimi sono stati onorati. Siamo bravissimi a pretendere, meno a dare.
Qualche giorno fa, a proposito della proposta di autonomia differenziata avanzata da Calderoli, il vicepresidente Sammartino ha chiesto “il mantenimento, da parte dello Stato, di alcuni impegni già presi e, in particolare, il riconoscimento delle accise generate dalla raffinazione petrolifera sull’Isola, per cui mancano ancora le norme di attuazione”. Le ha definite “risorse fondamentali”. Come i 600 milioni che Schifani è pronto a chiedere al ministro Giorgetti come compensazione dei mancati trasferimenti da parte dello Stato per l’aumento della spesa sanitaria, che la Regione vorrebbe ritoccare al ribasso di qualche punto: “Sono molto soddisfatto del proficuo clima riscontrato al Mef – ha detto Schifani dopo l’incontro di oggi – e ho molto apprezzato l’apertura e la sensibilità del ministro Giorgetti che, una volta preso atto delle aspettative della Regione, ha manifestato la disponibilità a valutare idonee iniziative per la stabilizzazione finanziaria della Sicilia”. Di alcune ipotesi di lavoro si discuterà già martedì prossimo, nel corso di un incontro al Mef.
E’ abbastanza per capire che fra Roma e Palermo esistono ancora numerose pendenze e che i tanti tavoli promossi dall’assessore Armao hanno raggiunto una parte residuale degli obiettivi che si erano prefissati: ad esempio l’abbattimento del contributo annuo di finanza pubblica (duecento milioni in meno) o l’importo di 100 milioni a titolo di acconto per la definizione delle norme di attuazione in materia finanziaria e per la compensazione degli svantaggi strutturali derivanti dalla condizione di insularità (che nel frattempo è stata inserita in Costituzione).
Ma nell’ultimo Accordo con lo Stato, che reca la data di dicembre ’21, si sottolineava “un termine invalicabile (“entro e non oltre il 30 giugno 2022, con effetti a partire dall’anno 2023”) per la complessiva definizione della nuova normativa di attuazione dello Statuto in materia finanziaria”. Tale adempimento – si leggeva nella nota di palazzo d’Orleans – “appare imprescindibile per superare un assetto, risalente al 1965, che, con le compartecipazioni tributarie concordate nella precedente legislatura – come precisato dalla Corte dei conti – non garantisce più alla Regione la copertura delle spese per le funzioni statutariamente attribuite, determinando una sorta di “insostenibilità dell’autonomia”, incompatibile i principi della Costituzione”.
Si faceva riferimento pure alla retrocessione dell’Iva e delle accise (il tema rilanciato da Sammartino) e a tutta una serie di questioni che la Sicilia da sola non potrebbe risolvere. E che, forse, non è neanche tenuta a risolvere. Ma con tutto il resto come la mettiamo? Come farà il presidente Schifani a cancellare l’onta delle promesse non mantenute? Come farà a convincere la Corte dei Conti da un lato, e lo Stato dall’altro, che col nuovo governo è cambiata anche la musica? Potrà mai liberarsi del peso ingombrante degli ultimi cinque anni d’amministrazione, che hanno reso impossibile immaginare per la Sicilia uno scenario a breve-medio termine, senza dover rimanere appesi al filo della parifica? Il lavoro è appena cominciato. In bocca al lupo.