Lo schiaffo del soldato si abbatte sulla Regione, costretta a parare colpi ovunque. Non solo quello della Corte dei Conti, che una volta di più ha certificato gli enormi deficit di bilancio a palazzo d’Orleans, emettendo un giudizio di parifica negativo al termine di sei mesi di “trattative frenetiche” che non hanno dato i risultati sperati (due miliardi di disavanzo, di cui uno da “saldare” entro il 2019). Le altre batoste, che dipingono un Natale molto amaro per la Regione siciliana, giungono dal Consiglio dei Ministri, che ha impugnato alcune norme cardine dell’ultimo “collegato” senza spesa. E da Bruxelles, che continua a far le pulci al governo dell’Isola.
Gli innumerevoli viaggi dell’assessore Armao nella capitale dell’Unione, per rappresentare le esigenze della Sicilia e la sua condizione di insularità, non sono bastati a evitare le solite strigliate. Se la Regione non riuscirà a spendere i fondi comunitari previsti dalla programmazione 2014-20 entro i prossimi 17 giorni (il 31 dicembre è fissata la deadline), 400 milioni torneranno a Bruxelles. Ma dovrà farlo in modo oculato, e non come lo scorso anno: quando la fretta convinse gli assessorati a riversare le somme su capitoli di spesa che nulla avevano a che vedere con la destinazione d’uso originaria. Il sistema dei “progetti retrospettivi” (è così che si chiamano), avvenuto “con una procedura molto generica”, non è visto di buon grado dallì’Europa, cui si drizzano le antenne quando c’è di mezzo la Sicilia.
Un capitolo a parte rispetto ai 400 milioni ancora da “piazzare” (Musumeci ha ammesso che non è facile certificare la spesa entro i termini dettati dall’Ue) riguardano i 630 milioni di euro bloccati da procedure burocratiche che stanno andando per le lunghe e che, solo il consenso unanime dei destinatari e una manovra di riprogrammazione, potrebbero destinare altrove. Magari su graduatorie già approvate, come quelle che riguardano progetti di illuminazione ed efficientamento energetico degli edifici pubblici. Come funziona, l’ha spiegato bene il Giornale di Sicilia: una quota di fondi comunitari – 630 milioni, per l’appunto – sono destinati dagli assessorati regionale a un programma d’investimento “territoriale”, in cui entrano in ballo i comuni. Ma la spesa di questi fondi, che spesso procede a rilento per l’assenza di progetti o per i paletti imposti da procedure amministrative farraginose, restano al palo. Così gli assessorati “bisognosi”, che hanno già speso il budget a loro disposizione, chiedono di potersene appropriare secondo una regolare procedura.
In questi giorni la questione è riemersa in Assemblea regionale, durante una riunione della commissione Affari Europei, in cui un dirigente all’assessorato all’Energia, Tuccio Urso, ha chiesto di svincolare i fondi in esame e dirottarli su due graduatorie già pronte che contengono un centinaio di progetti approvati e finanziabili per cui mancano, invece, le risorse. D’Urso ha anche trovato la sponda politica dei Cinque Stelle. La neo parlamentare Ketty Damante, assieme alla collega Angela Foti, hanno espresso la necessità non sprecare altro tempo: “Bisogna rimpinguare la dotazione finanziaria, attingendo a quei fondi che ormai è sicuro verrebbero restituiti perché impegnati su misure che certamente non andranno in porto. Il dipartimento Programmazione (funzionale a questo scopo) e il presidente Musumeci, anziché ancorarsi a questioni burocratiche infondate, procedano a una rimodulazione delle risorse e alimentino questo importante settore che potrebbe dare ossigeno a imprese e indotto, oltre che consentire un risparmio notevole per i Comuni in termini di costi energetici”.
Non si tratta di un passaggio scontato, né rapido, ma è un modo ulteriore per verificare il problem solving della Regione. Che fin qui non ha conseguito risultati entusiasmanti. Ad esempio nel rapporto con Roma. Il Consiglio dei Ministri è intervenuto per la quarta volta negli ultimi mesi, stavolta per stroncare alcune norme contenute nel collegato senza spesa approvato a settembre dall’Ars. Una mini Finanziaria a costo zero che, secondo il governo centrale, manca di una relazione che confermi la sua natura: essere a costo zero, appunto. Ma ci sarebbero anche delle invasioni di campo da parte di Palermo, che violerebbe più volte l’articolo 117 della Costituzione, quello sulla potestà legislativa esercitata da Stato e Regione. Ossia relativo alle competenze dell’uno e dell’altra.
Ad esempio, la maggiore delle contestazioni mosse da Roma riguarda la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili assunti da Almaviva e l’impiego dei cinquemila Asu nelle Asp e nelle Camere di Commercio siciliane, che viola la competenza statale sull’ordinamento civile dal momento che estende “ai lavoratori socialmente utili il regime delle stabilizzazioni previsto dalla legge statale per il personale precario, a tempo determinato o con contratto di lavoro flessibile delle pubbliche amministrazioni”. Per lo stesso motivo è giunto lo stop al “travaso” di alcuni funzionari dall’Istituto di incremento ippico al Consorzio Agrario, e alla proroga dei contratti per medici e infermieri che lavorano all’interno delle carceri. Infine, non è stato concesso da Roma l’utilizzo dei fondi derivanti dalla cessione degli edifici degli Iacp (gli istituti autonomi delle case popolari che Musumeci avrebbe voluto abolire) per sanare i bilanci degli stessi: “Confligge con il decreto che impone la destinazione esclusiva dei proventi delle alienazioni degli alloggi di edilizia popolare ad un programma di realizzazione o acquisto o manutenzione straordinaria del patrimonio edilizio popolare esistente”.
Sono sei, infine, le norme bocciate per l’assenza di una relazione che certifichi la mancata spesa. Il Consiglio dei Ministri era già intervenuto ad aprile per impugnare alcune norme della Legge di Bilancio, approvata da Palazzo dei Normanni a febbraio. E in particolare: un articolo che si occupava di controllo e protezione della fauna selvatica perché di “competenza statale”; un altro sulla stabilizzazione del personale della sanità penitenziaria; uno, invece, riguardava l’abrogazione di una precedente legge (del 2016) relativa al taglio di 1,8 milioni dal fondo per la retribuzione dei dirigenti regionali. Ma era anche intervenuto per negare il transito del personale Asu all’assessorato ai Beni Culturali e quello dei lavoratori precari degli enti in dissesto alla Resais (in questo caso la Regione ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale), operazioni che non potrebbero andare in porto senza una trasparente procedura concorsuale.
Mentre a settembre il Cdm del Conte-2 ha impugnato cinque norme del “collegato generale” alla Finanziaria, approvato dall’Ars il 10 luglio, di cui una garantiva lo sblocco di 114 milioni, prima “congelati” in attesa di conoscere le modalità di dilazione del disavanzo con lo Stato. Le altre riguardavano i fondi per le ex province e un tentativo di riforma degli appalti, in deroga al sistema nazionale. L’ultima ondata di divieti era arrivata a ottobre, quando Roma stoppò la norma per il recepimento di “quota 100” per i dipendenti regionali, contenuta in un altro “collegato”, e la proroga per le concessioni per le tratte del trasporto pubblico locale.
Un vero terremoto a cui la Regione non si è mai saputa sottrarre. Il dialogo con lo Stato, che a livello finanziario è stato affidato al vicegovernatore e assessore competente Gaetano Armao, non ha mai portato a esiti felici. Anche se in quest’ultima circostanza, Roma ha mostrato segnali di apertura, spiegando che “qualora la Regione prendesse impegni nel modificare le il governo è disposto a ritirare l’impugnativa”. Poi, è inevitabile, dovrà riaprirsi il dialogo in conferenza Stato-Regione per ridiscutere del disavanzo che ogni giorno di più pesa sulle casse di palazzo d’Orleans e sulla testa dei siciliani, destinati a una serie di “tagli” improrogabili già dalla prossima manovra finanziaria. Un miliardo, mica bruscolini.