Le rivoluzioni sono fatte così come era fatta ieri la Rotunda del Campidoglio di Washington, mentre rimbombava il potentissimo discorso dell’immobiliarista che ha conquistato l’America e si protende sul mondo intero. Cose semplici hanno fatto la storia degli ultimi secoli, per non tirare in ballo la storia antica e imperiale. Libertà eguaglianza fraternità. Il Re deve morire perché viva il popolo. Tutto il potere ai Soviet. La terra ai contadini. Se avanzo, seguitemi. Alles für Deutschland. L’America First! di Trump, con l’annuncio degli executive order per la prima giornata da presidente, aveva la potenza e la consistenza di una rivoluzione del XXI secolo. Non si sa bene che cosa pensare del presente, e che cosa augurarsi per il futuro, e anche l’evocazione del passato storico è soggetta a sottili controversie e interpretazioni.
Quel che è certo è che Trump non ha mostrato la volontà di esercitare un formidabile potere costituzionale, quello esecutivo, ma di gestire la democrazia e la repubblica americana in forma imperiale, forte di un carisma democratico, we the people, che nelle sue parole e nel suo ostentato programma equivale a una autocrazia democratica. Che le democrazie generino autocrazie lo si sa dal Quinto secolo avanti Cristo, dalla Repubblica di Platone. La forma conta. Quel che si vede conta. Da un lato nella Rotunda sedeva lo status quo, dall’altro un movimento rivoluzionario che ha portato letteralmente la logica e l’animus del 6 gennaio, l’assalto cornuto al Campidoglio, al regime change. Ora si capisce bene l’assurda logica delle nomine presidenziali, la sutura precipitosa ma visibile della politica e della tecnologia, la globalizzazione nazionalizzata in funzione di dominio. Uomini e donne dello status quo o dell’ancien régime erano seduti e muti.
Trump ne ha approfittato per inondarli di parole pesantissime, formule provocatorie, narcisismi augustei proiettati nell’epoca successoria di Tiberio e di Nerone. Continua su ilfoglio.it