Per dare un volto nuovo (e funzionale) alla Sicilia, Renato Schifani ha scelto di guardare al passato. Tra le prime iniziative assunte dal suo governo, infatti, c’è il ritorno delle province, che Rosario Crocetta aveva abrogato con un colpo di spugna – molto più teatrale che sostanziale – nel 2014. La reintroduzione degli enti d’area vasta, però, non va soltanto a colmare “un vuoto nei processi decisionali e amministrativi che ha penalizzato in maniera evidente l’erogazione di servizi importanti per i cittadini e per la tutela del territorio”, come ha dichiarato il presidente della Regione. Ma è nuova benzina per la politica, che avrà così la forza di rigenerarsi attraverso l’attivazione di nuove posizioni di potere nei territori. Forme di compensazione perché non ha avuto la possibilità di candidarsi a sindaci, per chi ha perso il treno per le Regionali, per i nostalgici delle poltrone. E non è un caso che l’appuntamento con il processo di riforma arrivi a ridosso delle prossime Amministrative, che vedranno al voto importanti città come Catania, Siracusa, Trapani e Ragusa.
Pure in tempi di stenti la politica riesce ad autoriprodursi con una certa sfacciataggine, senza dare prova – al contrario – di interesse per la riqualificazione della spesa, per la cancellazione degli enti inutili (i cosiddetti carrozzoni), per l’archiviazione degli scandali che ammorbano la macchina pubblica. Laddove archiviare non significa “insabbiare”, com’è avvenuto di recente col caso Cannes: dopo lo scambio di deleghe fra i due assessori di Fratelli d’Italia, serviva un fascio di luce per individuare i responsabili di un affaire che oggi sta vivendo la sua evoluzione nella polpetta avvelenata di SeeSicily Prima della politica, però, arriverà la magistratura. Come sempre. La politica si occupa d’altro: di cosuzze, di sopravvivenza, e di autoalimentazione.
Le province, si diceva. “La loro abolizione è stata una sciagura – ha detto qualche giorno fa il governatore in un intervento radiofonico -. Tra i tanti svantaggi non è stata più fatta la manutenzione delle strade con cui si sarebbero potute evitare tante disgrazie e frane. In giunta abbiamo approvato un disegno di legge per il loro ripristino e so che a breve avverrà in altre parti d’Italia. C’è grande condivisione con il governo centrale e ho parlato tante volte il ministro Roberto Calderoli. Il tema – ha aggiunto – non sono le poltrone delle province. Con il mio governo da cinque mesi sto lavorando per l’eliminazione di alcuni enti e l’accorpamento di altri. Ho avuto un confronto con la Corte dei Conti, che in passato ha richiamato la Regione per chiudere alcune società in liquidazione. Quest’anno farò in modo di chiudere definitivamente quei baracconi del passato che non hanno ragion d’essere. Ho bisogno di un po’ di tempo, ma la linea è tracciata”.
Sarebbe una giusta forma di compensazione, forse. Ma perché nessun altro, prima di Schifani, ha avuto la forza e la perseveranza di portare a fondo la chiusura degli enti dismessi in via di liquidazione? Ce ne sono alcuni che reggono il peso della storia da oltre vent’anni e di tanto in tanto, come il caso dell’Ente minerario, riemergono dal torpore per qualche scandaluccio. Ecco. Finché non ci saranno passi concreti su questo fronte, faranno bene i media nazionali a preoccuparsi (e scandalizzarsi) per il numero di poltrone che fioccano in Sicilia. Con le nuove province – che per altro vedranno la partecipazione attiva dei cittadini, chiamati al voto – saranno meno delle passate edizioni, ricorda Schifani (“Secondo una logica di sobrietà che guarda al contenimento dei costi e di snellezza ed efficienza dei nuovi enti”). Ma saranno comunque parecchie: nel dettaglio, per le province con popolazione superiore al milione di abitanti (Palermo su tutte) sono previsti 36 consiglieri e massimo 9 assessori; per quelle tra cinquecentomila e un milione di abitanti, 30 consiglieri e fino a 7 assessori, mentre quelle con meno di 500.000 abitanti potranno eleggere 24 consiglieri e le giunte avranno massimo sei assessori. Totale: 252 consiglieri e 63 assessori (cioè 316 poltrone).
La cosa positiva per Schifani e il centrodestra è che le opposizioni non faranno muro. Persino le più ostentate, dai Cinque Stelle al Pd, ritengono necessaria la reintroduzione delle province, pur avendole abolite in passato. E si comporteranno proprio come per l’adeguamento delle indennità dei parlamentari al costo della vita: un po’ di rumore e nulla più (a proposito, che fine hanno fatto i quattro disegni di legge già depositati all’Ars che puntano alla cancellazione del “privilegio”)? “Sulle Province non abbiamo cambiato idea – si giustificano i grillini -: eravamo e siamo per il contenimento dei costi e delle poltrone, ma occorre garantire al contempo servizi efficienti per i cittadini, cosa che il governo Musumeci non è stato in grado di fare, provocando i disastri che sono sotto gli occhi di tutti. Se proprio devono essere ripristinate, non siamo contrari, purché funzionino ottimamente e non siano meri poltronifici per trombati delle elezioni, cosa che crediamo sia purtroppo negli intendimenti del centrodestra”.
L’assessore all’Economia Marco Falcone, nei giorni scorsi, ha dovuto smentire le preoccupazioni del dem Catanzaro sulla copertura finanziaria: “Il ripristino degli Enti intermedi non richiede risorse aggiuntive da parte della Regione, si tratta di un falso problema. Già nell’ultima Legge di stabilità il Governo Schifani ha confermato non solo la copertura da 300 milioni nel triennio 2023/25 che la Regione devolve agli enti intermedi, ma ha assegnato ulteriori risorse – ben 165 milioni sullo stesso triennio – attraverso il Fondo sviluppo e coesione, fatto mai accaduto prima. Vorremmo ricordare che le fonti a cui attingono le ex Province sono essenzialmente le risorse da Rc Auto, dall’Imposta provinciale di trascrizione e dalle accise dell’energia elettrica. Sulle prime due, preme sottolineare che lo Stato opera un prelievo forzoso. Nel corso dell’ultimo incontro fra il presidente Renato Schifani e il ministro Roberto Calderoli a Palazzo d’Orleans – ha poi concluso l’assessore – abbiamo chiesto di eliminare o ridurre sensibilmente tale prelievo nell’ambito della programmata abolizione della Legge Delrio”. E ancora: “Siamo pronti a essere auditi in commissione affari istituzionali all’Ars per sgombrare il campo da ogni dubbio e giungere alla rapida approvazione di una riforma che, come indicato dal presidente Schifani, dovrà fare da apripista per il resto d’Italia”.
Fuori dal palazzo è cominciato anche il confronto con le forze sociali, fermo restando che “il disegno di legge, che è già stato approvato dalla giunta e trasmesso all’Assemblea regionale per l’iter parlamentare – dice l’assessore agli Enti locali Andrea Messina – è condizionato all’abrogazione della legge “Delrio” (la n. 56 del 2014) che ha riformato la materia degli enti locali ridefinendo il sistema della rappresentanza nelle ex Province con elezioni di secondo livello”. Finché non verrà svelato l’arcano, qualsiasi disegno di legge sarà passibile di incostituzionalità. Eppure i sindacati, come il Csa-Cisal, si dicono soddisfatti per questa virata del governo: “Finalmente si pone rimedio a una riforma sciagurata che in questi anni ha depauperato questi enti sottraendo loro risorse e personale facendone pagare il prezzo ai siciliani, specie a quelli che vivono nei comuni più piccoli e che hanno dovuto sopportare strade dissestate, scarsi investimenti nelle scuole e nelle infrastrutture, oltre a servizi carenti. Le ex Province che devono diventare un motore di sviluppo e investimenti”.
A tirare le somme, in un intervento al Fatto quotidiano, è però l’ex responsabile dell’Ufficio trasparenza della Regione siciliana, Lino Buscemi, che sottolinea come il ddl sia strutturato con meccanismi di ricambio interni alla politica stessa: “E’ prevista l’elezione di un consigliere supplente per riempire il posto lasciato vacante da chi è diventato nel frattempo assessore e la legge prevede espressamente una quota di consiglieri pari al 25% riservata ai consiglieri comunali. Si perpetua un errore ignorando l’esigenza di razionalizzare la spesa”. Ma forse non è un errore. E’ solo un modus operandi tipico della “casta”.