Tre sindaci siciliani convivono sulla graticola. Ma solo uno, Leoluca Orlando, per reati contestati nell’esercizio delle sue funzioni. Il professore, a Palermo, è accusato di “falso materiale in atto pubblico”. Più precisamente, ma meno tangibilmente, di aver truccato i conti del Comune. Per vederci chiaro, la Regione – sì, la stessa Regione fustigata dalla Corte dei Conti per aver creato un disavanzo monstre – ha mandato tre ispettori. Ma questa è un’altra storia.
Orlando, Pogliese e De Luca sono accomunati da vicende torbide che ammantano i loro giorni a palazzo di città. E che ben presto potrebbero allontanarli dalla loro poltrona. A Palermo si vota nella prossima primavera. A Messina pure, se Scateno – come ha promesso – dovesse dimettersi a febbraio per intraprendere la campagna da governatore. Il caso più complicato riguarda Catania, dove la città rimane “appesa” alle decisioni del sindaco. O meglio, del Tribunale che dovrà riconvocare le parti in una nuova udienza (la data non c’è ancora) per decidere – come acclarato dalla Corte Costituzionale – sull’applicazione della Legge Severino. E’ quella che prevede la sospensione dalla carica, per 18 mesi, anche in presenza di una sentenza non passata in giudicato: come quella che riguarda Pogliese, condannato in primo grado a 4 anni e 3 mesi per peculato (per la vicenda delle spese pazze all’Ars).
La questione è stata ampiamente discussa dal 2011, quando per effetto della stessa legge Silvio Berlusconi venne cacciato dal Senato dopo la condanna – quella volta definitiva – a 4 anni per frode fiscale. Ma dopo un grado di giudizio, come fai a stabilire la decadenza di un sindaco, lasciando una città senza guida? Eppure è accaduto, lo scorso anno, per pochi mesi. Pogliese era stato fatto fuori a luglio: poi intervenne il Tribunale di Catania, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di fronte alla Consulta, consentendo al primo cittadino di essere reintegrato. Fino alla decisione della Corte, giunta ieri, secondo cui il ricordo è infondato. La Severino è costituzionale e va applicata. Il Tribunale non potrà che prenderne atto e ri-sospendere il sindaco. Ridando inizio alla trafila (o magari no, se verrà deciso che la sospensione scade ai 18 mesi dalla prima applicazione: cioè a gennaio prossimo). Ma il punto è un altro: è il rapporto fra politica e giustizia. Contro la Legge Severino è stato lanciato dalla Lega e dai Radicali un referendum abrogativo, già ritenuto ammissibile dalla Cassazione. “Non sarà una legge profondamente ingiusta, come la ritengono illustri costituzionalisti ed esponenti di ogni parte politica, a farmi arretrare di un millimetro”, ha detto il sindaco di Catania. Riaprendo un dibattito durato anche troppo, ormai quasi demodé.
Gli altri suoi colleghi, invece, sono alle prese con questioni diverse. Adesso, detto francamente, è impensabile che uno come Orlando, allergico per definizione alle cose amministrative e a “sporcarsi le mani”, si sia sognato di falsificare i bilanci. E’ il sindaco, certo, e deve rispondere degli atti di tutti: assessori e dirigenti. Ma ce lo vedete uno che non mette quasi mai la faccia sui cimiteri, sugli acquedotti, sulle strade, intervenire su quattro esercizi finanziari, sovrastimando le entrate, per cercare di coprire i buchi ed evitare un dissesto alle porte? Dai, non scherziamo. E Orlando non è nemmeno di destra, altrimenti tornerebbero buone le parole utilizzate da Pietrangelo Buttafuoco – a noi di Buttanissima – per illustrare il compito “ingrato” di un sindaco di destra, senza un partito-apparato disposto a proteggerlo dalla protervia dei magistrati: “Chi è questa persona perbene e capace, questo professionista che chiude il proprio studio o il proprio lavoro per andare a fare un lavoro ingrato, complicatissimo come il sindaco? In una eventuale vicenda giudiziaria, oltre alla reputazione, rischia di perdere pure i soldi e la libertà”.
Anche Cateno De Luca, che oggi ha perso le stimmate dei partiti, è rimasto invischiato in un processo sconvolgente – per tempi e lungaggini – che nulla ha a che vedere con la sua permanenza a palazzo Zanca. Un iter avviato nel 2017, quando l’allora parlamentare regionale di Sicilia Vera, poco prima dell’insediamento all’Ars, venne arrestato nell’ambito di un’inchiesta su patronati e corsi di formazione professionale, con l’accusa di associazione a delinquere ed evasione fiscale. E condotto ai domiciliari. Secondo la procura, Scateno avrebbe utilizzato alcune società satellite per evadere il Fisco, emettendo fatture false per circa un milione e mezzo di euro. Fu rilasciato dopo un mese. Mentre dopo un anno cadde l’accusa di associazione a delinquere. E’ rimasto in trincea, e lo sarà fino al 10 gennaio prossimo (data della sentenza), per respingere la tesi dell’evasione fiscale. “Questo di stasera – aveva detto – è l’ultima udienza del diciottesimo procedimento penale che ancora mi vede incensurato e che ha causato il mio secondo arresto del 8 novembre 2017 successivamente ritenuto ingiusto in tutti i gradi di giudizio. Sono stanco”. Ma dovrà attendere. Perché a volte la giustizia è “ingiusta”. Prima ti tira dentro con tutte le scarpe. Poi ti lascia per anni a bagnomaria.
Il Lodo Alfano appartiene alla preistoria. E i tempi per uno “scudo” non sono più maturi (figurarsi, con questo clima). Ma qualche domanda, ogni tanto, potrebbe aiutare tutti. I sindaci e i cittadini. Altrimenti la politica rimarrà per sempre a portata di sputo. E la giustizia pure.