Tre città che colano a picco

Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, è in ferie nonostante le mille debolezze di Palermo. E progetta il suo futuro col Pd

Il vicesindaco di Catania, Roberto Bonaccorsi, assicura che dalla nuova sospensione di Salvo Pogliese, la macchina amministrativa non si è fermata un secondo (ma sono passati appena un paio di giorni). A Palermo, invece, sostengono che quella stessa macchina si sia fermata per sempre: sono palesi le difficoltà di Orlando a mandare in porto l’ultimo spezzone del suo mandato. In primavera si tornerà a votare. E se non accade nulla di inverosimile, anche Messina sarà investita dal tornado elettorale: Cateno De Luca ha rassegnato le dimissioni e dal 15 febbraio sarà in corsa per la Regione. Sulle sue ambizioni, però, pesa l’approvazione del piano di riequilibrio da parte della Corte dei Conti. L’udienza è fissata per l’8 febbraio.

Tre città, tre destini avversi. E incerti. Che in Sicilia non sia per nulla facile fare il sindaco è arcinoto. Ma qui – con sfumature diverse – ci sono le tre città più importanti che rischiano di colare a picco. La crisi è economica e di rappresentanza. A fotografare la situazione di Catania, in questi giorni, ci hanno pensato gli oppositori di Salvo Pogliese, che dopo aver appreso della seconda sospensione (da parte del prefetto) è volato a Roma per spingere sulla modifica della Legge Severino e assistere alla discussione sul patto tra Fratelli d’Italie e Musumeci. Mentre la città brucia: “Catania sta vivendo in uno stato di prolungato e doloroso abbandono: preda dell’emergenza rifiuti, di un disagio diffuso nelle sue periferie, senza una regia per l’utilizzo dei fondi del Pnrr”, ha detto Claudio Fava. Anche Alfio Mannino, segretario della Cgil, ha segnalato a Repubblica come la città sia “in una fase di decadenza. Ha puntato solo sui servizi, ma il commercio al dettaglio non regge. Il centro è sempre più nel degrado. La crisi industriale è l’epifenomeno di una città che ha perso l’anima”.

L’anima e la faccia, con la storia dei concorsi truccati all’università. Inoltre, nelle ultime settimane, ha dovuto rimettere in discussione persino la fede calcistica, giacché il club etneo, che milita in Serie C e ne aveva già passate tante, è stato dichiarato fallito da un tribunale. Pogliese s’è speso anche per il calcio, ma gli è andata male. Come sui conti. Il Comune è in dissesto dal 12 dicembre 2018 (e c’è un’inchiesta giudiziaria in corso per stabilirne le eventuali responsabilità). L’ultima vicenda intricata riguarda la Camera di Commercio: anch’essa commissariata, dopo l’intervento del parlamento nazionale che ha scorporato la provincia etnea da Ragusa e Siracusa. C’è in ballo il destino di Fontanarossa, il quarto aeroporto italiano per traffico passeggeri, che la Sac (di cui la CamCom del Sud-Est controllava il 61% del pacchetto azionario) avrebbe voluto privatizzare almeno in parte. Bisogna rigiocare la partita, collegarla a un processo di sviluppo economico-imprenditoriale di un territorio, e non a una lotta di potere o interessi di parte.

Con così tanti dossier in ballo, Pogliese non sa ancora se rimarrà sindaco. Ma soprattutto non ha alcuna voglia di dimettersi: “Alla fine sarà la verità a trionfare”, ha detto. C’è attesa per la sentenza del Tribunale civile, che dovrà pronunciarsi sulla corretta applicazione della Severino. Pogliese è stato condannato a 4 anni e 3 mesi per peculato. Secondo la norma che ha sbattuto fuori dal Senato persino Berlusconi, è sospeso dalle sue funzioni per 18 mesi. Ne sono trascorsi quattro prima del reintegro, avvenuto a dicembre 2020. Potrebbe volerci ancora molto tempo – l’orizzonte è marzo 2023 – per liberarsi del fardello. Musumeci l’ha invitato a rimanere in sella, dopo aver valutato attentamente l’opportunità di un’uscita del genere sui suoi rapporti a destra. Dimettersi ora, d’altronde, significherebbe tornare alle urne in primavera. Cui prodest?

Se Catania annaspa, Palermo non sorride. Il destino politico di Leoluca Orlando è segnato: a maggio starà già facendo le valigie. Fine della corsa. Anche se il sindaco rischia di aver insozzato definitivamente il futuro della quinta città d’Italia. La sua unica preoccupazione, adesso, non è la monnezza, e nemmeno togliere le bare insepolte dal tendone dei Rotoli. E nemmeno ricucire la ferita sanguinosa del Ponte Corleone. No. L’unico obiettivo è sopravvivere al dissesto funzionale che il ragioniere generale del Comune aveva spinto a dichiarare. Il sindaco ha fatto resistenza, ha messo su un piano di riequilibrio per salvare la baracca: compaiono numerosi sacrifici, tra cui il raddoppio dell’Irpef e l’aumento dei tributi (rifiuti, suolo pubblico, pubblicità, mercato ittico e ortofrutticolo, accesso agli impianti sportivi), la cessione della Gesap (l’unica società a partecipazione pubblica coi conti in ordine) con annessa la privatizzazione dell’aeroporto Falcone-Borsellino.

Ma il sindaco non avrà vita facile. Deve prima confrontarsi con Sala delle Lapidi che lo attende al varco, e che numericamente non gli ha più sorriso: “L’incremento previsto dell’Irpef e dei servizi a domanda individuale sarà l’ennesima mazzata su chi già paga e in cambio non riceverà alcun miglioramento dei servizi – ha detto il capogruppo di Italia Viva, Dario Chinnici -. Le centinaia di milioni che arriveranno da Roma non serviranno a cambiare il volto di questa città, ma solo a mantenere un disastroso status quo. Italia Viva farà le barricate per evitare l’ennesimo scempio”. Già, ci sarebbero i soldi stanziati da Roma con l’ultima Legge di Bilancio. Una spruzzata d’ottimismo in un mare di guai, che non servirà a risolvere i problemi accumulati negli ultimi dieci anni di gestione.

Orlando, infatti, si porta dietro un paio d’inchieste – sui bilanci falsi e sullo scandalo dei cimiteri – ma soprattutto un’ultima operazione assai audace: l’utilizzo di 86 milioni che Roma aveva stanziato per ristorare le imprese (concedendo agevolazioni sui tributi), per tappare le falle nei conti. Fra l’altro non è servito a granché. In questo clima da fuggi fuggi generale, appare difficilissimo trovare un candidato che cancelli l’ultima stagione disastrosa. Nel centrodestra, dopo tante fibrillazioni, il tavolo è stato sospeso in attesa di capire cosa succederà al Quirinale e quali saranno i nuovi equilibri. Nel centrosinistra la trattativa vera e propria non è mai partita, anche se alcuni degli assessori uscenti – da Fabio Giambrone a Giusto Catania – hanno manifestato la propria disponibilità a scendere in campo. Non vogliono ammainare la bandiera di Orlando, né mollare di un centimetro sulla realizzazione del tram. Perderebbero l’esclusiva sulla città smart e sostenibile, che nonostante i mille cantieri e le pedonalizzazioni in atto (e in itinere), continua a viaggiare nei bassifondi delle classifiche sulla qualità della vita.

L’ultimo capitolo riguarda Messina, che negli ultimi tempi ha cominciato lo sbaraccamento delle periferie – un secolo dopo il terremoto che ha ridotto nelle favelas molte famiglie – e raggiunto un discreto livello di differenziata (il 35%). In un contesto di città in crescita, suona strano l’addio di Cateno De Luca, cui anche Raffaele Lombardo, in una recente intervista a ‘La Sicilia’, ha riconosciuto le grandi abilità da amministratore. Ma De Luca se ne va per due motivi. Il primo è noto a tutti: vuole candidarsi alla presidenza della Regione. Il secondo, invece, risiede nel “freno” del Consiglio comunale, dove Scateno non ha mai avuto la maggioranza: “La mia giunta in questi anni ha dovuto lavorare con il freno a mano tirato perché ogni delibera discussa in Consiglio per noi è stata una vera via crucis”. Della serie: potevamo fare di più, ma non ce lo permettono.

De Luca, che con la sua presenza oscura chiunque, vorrebbe liberare palazzo Zanca in tempo utile per evitare il commissariamento e andare a votare in primavera; e, comunque, ricandidarsi al civico consesso per garantire la continuità nel “metodo”. Magari da presidente del Consiglio. Da qui il tira e molla sulle dimissioni. La prima volta ha ritardato per essere presente a un’udienza col Papa il 5 febbraio; poi s’è dimesso, ma ha deciso di cestinare tutto, perché è stato convocato in udienza dalla Corte dei Conti per discutere del piano di riequilibrio (l’8); ma nel giro di qualche ora s’è dimesso nuovamente. L’atto diventa irrevocabile il 15 febbraio, dopo San Valentino. Le opposizioni attaccano: “Insopportabile teatrino”. I social ribollono, fra sostenitori e detrattori. Ma che succede se la Corte dei Conti non dovesse approvare il piano? “Rimango qui – ha risposto il diretto interessato nel corso di una diretta Facebook – perché su quel piano ci ho messo la faccia e mi prendo sempre la responsabilità di quello che faccio. Se i consiglieri comunali vogliono che me ne vada, devono augurarsi che il piano sia approvato”. Fine della storia? Neanche per idea.

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