Nello Musumeci, Cateno De Luca e Claudio Fava. Sono loro i primi candidati alla presidenza della Regione siciliana. Già da tempo, per la verità. Il governatore uscente, che aveva comunicato le proprie intenzioni nel corso dell’evento dello Spasimo, il 26 giugno scorso, avrà modo di ripeterlo il 20 novembre a Catania. La kermesse, questa volta, è organizzata da Diventerà Bellissima, che di recente ha unito al simbolo ufficiale la scritta ‘Musumeci presidente’. Più chiaro di così… De Luca, che ultimamente ha abbassato i toni, in realtà sta affrontando una campagna elettorale sui generis: in giro per la Sicilia allo scopo di promuovere il tour musicale ‘A modo mio’. Un progetto ambizioso, utile a intercettare proventi a favore dei giovani artisti; ma che diventa un modo come un altro per accrescere la propria popolarità anche nelle province più remote rispetto al baricentro messinese. Infine Claudio Fava, che a differenza degli altri competitor resta in attesa di un cenno da parte della coalizione del ‘campo largo’. Si era proposto lo scorso aprile, mettendo a disposizione il proprio nome per cercare di anticipare le mosse del centrodestra. Ma il tentativo – ambizioso – è quotidianamente stroncato dalla melina di Pd e Cinque Stelle: “Viene prima il metodo rispetto alla proposta”, è il succo del discorso. Il presidente dell’Antimafia, però, non aspetterà in eterno.

Nel quadro variopinto della politica siciliana, che per definirsi attende l’elezione del Capo dello Stato (da cui dipende la formazione di nuovi schieramenti), trovano spazio le sfumature più estreme. Musumeci è reduce da quattro anni di delusioni cocenti, almeno nella prospettiva di chi aveva immaginato che l’Isola, con lui, sarebbe diventata “bellissima”. C’è l’alibi della pandemia, che nelle ultime ore sta prendendo forza per giustificare il non fatto. Le riforme promesse in campagna elettorale, a partire da quella sui rifiuti, sono rimaste lettera morta. Sull’acqua e sui consorzi di bonifica si gioca una partita dell’ultimo minuto, mentre la legge in materia di pubblica amministrazione difficilmente vedrà la luce prima della prossima legislatura. Ci sono pochi appigli per ripresentarsi agli elettori, se non quello – appunto – di non aver completato il programma (e, quindi, di aver disatteso le promesse). Ma a danneggiare oltremodo le aspettative di Musumeci è il rapporto – al minimo storico – con i partiti della coalizione. Di recente Micciché ha denunciato che nel corso della legislatura sono avvenuti soltanto due incontri di maggioranza, e che “il presidente ritiene i partiti un cancro”. A turno anche Lega, Autonomisti, Cantiere Popolare hanno rivendicato la scarsa attenzione verso le dinamiche interne. Mentre la dirigenza di Fratelli d’Italia non vede di buon occhio la creazione di una lista unica alle prossime Regionali, e l’ha ribadito anche alla Meloni.

Giorgia, che difficilmente tornerà a Palermo nelle prossime settimane, intende posticipare qualsiasi decisione alla primavera, dopo l’elezione del Capo dello Stato. Ma è evidente che un ostacolo ulteriore, per Musumeci, sarebbe la scelta della coalizione di centrodestra di appoggiare il suo fedelissimo, Alessandro Aricò, per la candidatura a sindaco di Palermo. Quello di domenica scorsa, arrivato al termine della direzione regionale di Diventerà Bellissima, è un coup de theatre – o l’ennesima fuga in avanti – che ha sorpreso gli alleati. Aricò non parte con i favori del pronostico, ma se tutti decidessero di appoggiarlo, come farebbe Musumeci a chiedere – anche – la presidenza della Regione? Il ragionamento nasconde le insidie e le tentazioni più svariate. La tempistica, però, non consente un eccesso di strategia: per il candidato sindaco bisogna decidere entro e non oltre l’autunno. Per farsi da parte, invece, Musumeci ha tempo. Manca l’intenzione: “Se mi spiegano perché, non sarei così egoista dal pensare che la mia ambizione di raccogliere (i frutti della semina, ndr) valga più della coalizione – disse lo scorso giugno -. Farei tre passi indietro, ma mi devono spiegare perché”. Il presidente, raccontano voci di corridoio, sarebbe disposto a candidarsi da solo. E a perdere, se fosse necessario.

A chiedergli di farsi da parte, su tutti, è stato Cateno De Luca. Il sindaco di Messina, che per sostenerlo, nel 2017, prese le distanze da Raffaele Lombardo (“Era innamorato di Armao”), oggi è il più fiero oppositore del sistema Musumeci. Lo dice anche cantando. Il nome di Scateno sulla scheda elettorale ci sarà. Ed è già fissato l’iter: dimissioni da sindaco nel prossimo febbraio, per evitare alla sua città un periodo di commissariamento (in quel modo sarebbe incluso nella finestra delle Amministrative di primavera); e via con la campagna elettorale. Dove i temi non mancheranno, ma una cosa è certa: nessun assessore o deputato uscente dell’attuale maggioranza (ad eccezione del fedelissimo Danilo Lo Giudice) sarà candidato. De Luca reputa Musumeci l’artefice del disastro. Sui rifiuti. Sulla sanità. Sui conti pubblici, tema su cui ha martellato a più riprese “quel fanfarone politico” di Armao. Da attento amministratore, propone la figura del sindaco di Sicilia. E lui, che di gavetta ne ha fatta tanta, si sente assolutamente pronto.

Ha detto di non accettare compromessi, tanto meno si farà battezzare da Roma (o da Salvini). La sua corsa è schietta e spericolata, forse un po’ troppo. Ma il “personaggio” certamente toglierebbe voti al centrodestra, ponendo l’intera coalizione di fronte a un rischio: perdere tutto. Così, mentre gli amici più intimi (da Micciché a Stancanelli) lo sconsigliano, Pd e Cinque Stelle, che con garbo hanno accettato l’invito all’assemblea regionale di Sicilia Vera, un mese e mezzo fa, fanno il tifo per questa soluzione. Cateno può diventare pedina cruciale e arma impropria allo stesso tempo. Muoversi in solitaria, rinunciando gli apparati, non sarà facile. In molti, però, lo accreditano di un consenso che oscilla fra il 7 e il 10%. Basta e avanza per creare scompiglio.

L’altro oppositore di Musumeci si chiama Claudio Fava. Per storia e per vocazione. I due condividono il fatto di aver guidato la commissione Antimafia, ma dall’inizio della legislatura è uno scornarsi continuo. Fava ha implorato una riforma del sistema dei rifiuti: che non parte dal disegno di legge in fermentazione all’Ars, funzionale (soltanto) alla nuova governance; ma un piano strategico sull’impiantistica – che va oltre quello adottato recentemente dalla giunta – che permetta al pubblico di prevalere sul privato, togliendo il business della monnezza a poche famiglie fortunate (e spesso colluse con la criminalità organizzata). Il deputato dei Cento Passi, però, non dipende soltanto dalle sue forze. L’annuncio della candidatura, nell’aprile scorso, era il tentativo di interrompere un’impasse, cercando di portare a maturazione l’esperimento del ‘campo largo’ di centrosinistra, che nel frattempo è uscito rafforzato dalle Amministrative.

L’accordo con Pd e Cinque Stelle, però, ancora non si schioda da una semplice dichiarazione d’intenti: quella di stare insieme. E dalla ricerca di un metodo per l’individuazione di un candidato unitario che sia garante dell’alleanza. Dem e grillini lo chiamano metodo, per Fava è soltanto melina. Da qui la disponibilità a organizzare le primarie, ma di farlo in fretta. La verità è che il percorso di unificazione e rilancio della sinistra, che il governo Crocetta aveva provveduto a umiliare con cinque anni di melodramma, pende dalle labbra di Giuseppe Conte, l’ex premier: fin quando non si pronuncerà sul leader dei Cinque Stelle – dovrebbe farlo entro dieci giorni: il favorito era e resta Giancarlo Cancelleri – il ‘campo largo’ rimarrà un recinto geografico immateriale.

Finora è stato convocato soltanto un vertice di coalizione. Bisogna (ri)avviare il confronto. Costruire un’alternativa a Musumeci. E metterci al timone un personaggio di carisma. Il Pd pensa a una donna, ma Fava resiste: “Incaponirsi nel tatticismo, nella retroguardia, nel parlar d’altro, mi sembra il viatico tradizionale del centrosinistra per prepararsi a una sconfitta – ha detto di recente a Buttanissima -. Questo è il momento di sfidare l’avversario in campo aperto, sfruttando il vantaggio delle proprie azioni. Io ci sono, ma non mi va di restare appeso ai tempi che altri decideranno secondo imperscrutabili ragionamenti”. Una candidatura non è per sempre.