“Ai premi non ci tengo né ci tesi mai, per citare Ettore Petrolini. Ma è chiaro che quando te li danno fa piacere”. Totò Rizzo, ex critico teatrale per il “Giornale di Sicilia” e – con vanto – collaboratore di Buttanissima, se n’è aggiudicato uno niente male. Al Bellini di Catania ha ricevuto il “Premio Danzuso”, giunto alla sua diciassettesima edizione. Su Facebook, la nuova frontiera di cui fa un largo uso (“I miei figli dicono che sono diventato un addicted”) ha sfoggiato la statuetta celebrativa. Nella nostra conversazione, invece ha riversato il motivo del suo orgoglio: “Micio Danzuso faceva parte di una scuola di critici teatrali alla quale noi, giovani ventenni degli anni ‘70, ci siamo formati. Ci hanno insegnato a esprimere sul teatro non soltanto un giudizio estetico formale: bravo questo, meno bravo quello; bello questo, meno bello quell’altro… Ma a guardare oltre: alle intenzioni che potevano esserci dietro a uno spettacolo, a una regia, a una scelta scenografica”.
La prima volta di un commento, di una recensione, o chiamatela come preferite, su una pièce teatrale arriva per Rizzo a vent’anni. Quando cominciò a collaborare con il Giornale di Sicilia e faceva il “biondino” (i giovani di bottega non ancora assunti): “Arturo Grassi mi mise alla prova mandandomi a fare la prima recensione su un cabaret. All’epoca, nei giornali, esisteva la figura del critico titolare della rubrica, che si firmava, e dei suoi vice. Che erano fantasmi, praticamente non esistevano. Ebbi la fortuna, quando arrivai io, di vedere subito la sigla sotto il mio primo articolo. Da quel punto di vista fui un privilegiato”. E’ un privilegio che Rizzo legittima sul campo: dopo la prima recensione ecco la prima intervista e, nell’arco di 3-4 anni, l’assunzione al quotidiano di via Lincoln: “Mi piaceva la scrittura tout court, ma avevo questa forte passione per gli spettacoli che deriva da una tradizione familiare. Da spettatori, ovviamente. Già quando avevo cinque anni il mio papà mi portava a teatro, a seguire la prosa e la lirica”.
La carriera di Rizzo spesso svicola. Per quattro anni approva al Tgs come caposervizio (“Lì appresi un altro mestiere rispetto a quello della carta stampata, mi tornò molto utile”), poi comincia alcune collaborazioni con la Rai, sia per la tv che per la radio. E oggi lo sbocco naturale di questa sperimentazione è mettersi alla prova costantemente: “Mi dispiace che non esiste più la terza pagina di un tempo. Una volta si andava a teatro per una “prima”, si tornava in redazione e a mezzanotte si cominciava scrivere una recensione di 80 righe che da lì a poche ore sarebbe finita in edicola. Alla trentesima riga il capo della tipografia ti scippava il foglio di mano e lo portava giù per farlo fotocomporre. Oggi le cronache di spettacolo sono ridotte a una riserva indiana: un giorno a settimana quando va bene. Questo mi dispiace”. Ma per fortuna c’è il web, che “ti dà subito un feedback, attraverso un like e una condivisione. E’ un’esperienza nuova per me – oltre a Buttanissima ho anche un blog – come la tv trentacinque anni fa”.
Nell’ultimo decennio Rizzo si è anche misurato con la scrittura di opere teatrali (qualcuno lo implora di ricominciare). La prima, che Filippo Luna ha tradotto in un successo memorabile, è “Le mille bolle blu”, che a distanza di dieci anni dalla messa in scena – “Era il 25 novembre 2008, lo ricordo perfettamente” – resiste e gira i teatri di tutta Italia: “A febbraio è al Teatro Libero di Milano, dove nel 2012, al Teatro dei filodrammatici, Filippo ebbe sette minuti e mezzo di applausi. E’ la storia di un amore omosessuale proibito, che si consuma a Palermo fra un barbiere e un avvocato. E’ tratta da un libro di dieci racconti cui contribuimmo io e Angela Mannino. Riuscimmo a coinvolgere Luna per alcuni reading e lo stesso Filippo si accorse che le persone, alla fine di questi appuntamenti, andavano via piangendo come vitelli scannati. Così mi propose di scrivere un monologo, che Alfio Scuderi, per il Palermo Teatro Festival, si offrì di produrre. Io, che credo fortemente alla separazione delle carriere, non ero convinto: non potevo fare il giudice ed essere giudicato allo stesso tempo. Ma poi mi misi all’opera. A teatro la gente piangeva ancora di più. Io, che ero cresciuto secondo un’educazione teatrale che imponeva alcuni stereotipi nei confronti dello spettatore – bisognava essere algidi e freddi il più possibile – all’inizio quasi mi vergognavo. ‘Miii, bedda matri che cosa ho scritto?’ pensai. Ma poi capii di aver toccato delle corde”.
Un’altra opera scritta da Rizzo è “Se’ nummari”, messo in scena dallo Stabile di Catania nel 2014 con la regia di Vincenzo Pirrotta. La storia dei genitori di un ragazzo tetraplegico, la cui vita cambia dopo una vincita al Super Enalotto. A quel punto capiscono che la via per la felicità è ostacolata dal loro povero figlio, e decidono di ammazzarlo. Ma dell’altro bolle in pentola: “Sto riprendendo in mano una cosa che avevo scritto, e conto di finirla entro breve tempo. Magari la farò leggere a qualcuno e vediamo che possiamo farne – sussurra Rizzo – Oggi non è facile proporre cose nuove ai direttori di teatro perché ci sono pochi soldi. Ma io scrivo sempre per pochi personaggi, così parto avvantaggiato”.