Facciamo un esperimento mentale. Poniamo che a cavallo tra otto e novecento un editore avesse deciso di pubblicare una versione in siciliano (o napoletano o altro idioma regionale) delle Avventure di Pinocchio di Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini. Sarebbe subito nato un acceso dibattito politico. Alcuni vi avrebbero visto un attentato all’unità nazionale e verosimilmente sarebbero stati la maggioranza. Altri l’avrebbero salutato come il segno dell’insuccesso dell’Italia unita e della vitalità degli idiomi locali. E altro ancora.
In questi giorni sono state distribuite in Sicilia, Campania, Toscana, Lombardia edizioni del popolarissimo Topolino contenenti una storia i cui personaggi parlano rispettivamente in siciliano (versione catanese … presunta), napoletano, toscano e milanese. Dove sta la notizia? Nel fatto che l’evento editoriale non ha fatto notizia. Nessun politico o commentatore politico se ne è accorto. Aggiungo: a ragione e correttamente.
Il silenzio sul popolarissimo Topolino in siciliano, napoletano, eccetera, è un faro potente sull’Italia linguistica, ma anche politica, contemporanea. Le parlate regionali dei nostri giorni le chiamiamo dialetti per pigrizia mentale ma nulla hanno a che fare coi dialetti ancora usati nei primissimi decenni del secolo scorso, grosso modo prima della Grande Guerra e dell’avvento della radio. Delle parlate locali del tempo che fu resta – per dirla con una delle più belle poesie di Ignazio Buttitta – a cadenza, / a nota vascia / du sonu e du lamentu. Niente che possa interessare il dibattito politico.
Delle quattro versioni dialettali pubblicate conosco solo la versione siculo-catanese. Sono un parlante nativo siciliano. Confesso che ho letto con molta curiosità ma anche molta fatica i dialoghi dei membri della banda bbassotti e di zio Paperone con Acchimede. La lettura si inceppava continuamente alla ricerca dell’equivalente italiano che mi consentisse di capire. Esattamente come se stessi leggendo la versione in latino antico di Topolino. Molte trovate linguistiche mi hanno divertito e le ho trovate ben fatte ma non non vi ho sentito l’idioma che si può ascoltare in un qualsiasi quartiere popolare di Catania o qualsiasi altra città siciliana. Nei dialoghi ho sentito una sapiente ricostruzione archeologica di un idioma morto. Non a caso il testo non è passato attraverso il vaglio di parlanti ma è opera dotta di un linguista (Salvatore Menza, ricercatore di “Glottologia e Linguistica” nell’Università di Catania). E, come accade nelle ricostruzioni archeologiche che non possono non essere intellettualistiche, realtà e immaginazioni vi si confondono.
Quello di Topolino siculo è un siciliano ricostruito in laboratorio e che in questo momento storico vive solo nei libri dei linguisti-dialettologi. È un siciliano privo di parole e costrutti italiani. Esattamente il contrario della mescolanza linguistica siculo-italiana che rende godibili, realistiche e facilmente comprensibili a ogni italiano le commedie del catanese Nino Martoglio (1870-1921).
Faccio un esempio. Nella parlata popolare siciliana antica le aree semantiche dei verbi insegnare e imparare tendono a confondersi. Ecco come lo scienziato Acchimedi spiega a zio Paperone come funziona il meccanismo cibernetico messo a guardia del suo patrimonio: Si nzigna tuttu cosi nta n nenti! In italiano: “Impara (Si nzigna) ogni cosa facilmente”. E ggià cci mparai ca cci â ppiàciri a ggiustizia, i cosi ggiusti! In italiano: “E gli insegnai (cci mparai) che gli deve piacere la giustizia, ossia le cose giuste”.
Non so quanti siculofoni oggi confondono le aree semantiche di insegnare e imparare. Probabilmente nessuno o pochissimi. Questo per dire che Topolino che parla in siciliano è un gustoso reperto archeologico che solo raffinati intellettuali che padroneggiano bene la lingua italiana possono apprezzare. Giustamente il dibattito politico non se ne occupa.