L’accordo Stato-Regione che ha determinato il “via libera” di Roma al ripiano del disavanzo in dieci anni, porta con sé un insieme di impegni gravosi che – a guardare il bicchiere mezzo pieno – potrebbero rappresentare per la Sicilia una svolta attesa a lungo. Musumeci, uno dei due firmatari del negoziato assieme a Giuseppe Conte, si è assunto l’onere e l’onore di cambiare volto alla Regione. Ma i cambi drastici richiedono sacrifici. Nel primo anno dell’accordo, quello in corso, Palazzo d’Orleans si è impegnato a tagliare il 40% delle spese grazie a un paio di interventi vitali: la riorganizzazione della struttura amministrativa e il recepimento dei principi in materia di dirigenza pubblica. Ergo, servono delle riforme convinte e convincenti, capaci di riqualificare il personale, anche del comparto dirigenziale, e accantonare un tesoretto per gli anni a venire. In soldoni, l’ente dovrà risparmiare da qui al 2029 la bellezza di un miliardo e 740 milioni. Ossia l’ammontare del deficit calcolato dalla Corte dei Conti in occasione dell’ultimo giudizio di parifica.
La burocrazia, che vanta con la politica un rapporto tormentato e a tratti connivente, è la carne viva dei processi amministrativi. E’ la rappresentazione stantia di status e privilegi consolidati che nessuno vorrebbe mai mollare. Eppure, anche in questo caso, la cura dimagrante è notevole. Fra i tredici impegni assunti dalla Regione siciliana c’è, infatti, “la riorganizzazione e lo snellimento della struttura amministrativa della Regione, al fine di ottenere una riduzione significativa degli uffici di livello dirigenziale e, in misura proporzionale, delle dotazioni organiche del personale dirigenziale e del comparto, nonché dei contingenti di personale assegnati ad attività strumentali”. L’accordo con Roma, però, prevede pure “il rafforzamento della gestione unitaria dei servizi strumentali, attraverso la costituzione di uffici comuni; il riordino degli uffici e organismi al fine di eliminare duplicazioni o sovrapposizioni di strutture o funzioni; il contenimento della spesa del personale in servizio, al netto delle spese per i rinnovi contrattuali nei limiti minimi di quelli previsti per il medesimo periodo a livello nazionale, e del personale in quiescenza”. I cordoni della borsa si stringono per tutti, ed è prevista una scure pure sulle buonuscite.
Ma è soprattutto la seconda parte del trattamento detox che rischia di dissolvere le antiche credenze di politici e burosauri, cioè il recepimento dei principi in materia di dirigenza pubblica. Vuol dire che la Sicilia non farà più storia a sé, bensì dovrà uniformarsi a determinati standard nazionali che, ad esempio, non prevedono l’esistenza della terza fascia dirigenziale. Un esempio classico, diventato una battaglia di pochi, che anche la Corte dei Conti in tempi non sospetti aveva intrapreso. E che adesso lo Stato prova a cavalcare, come si evince dal testo del negoziato, secondo cui “il recepimento dei principi in materia di dirigenza pubblica” è utile a “semplificare ed efficientare le modalità di attribuzione degli incarichi, eliminare le distinzioni tra la prima e la seconda fascia dei dirigenti di ruolo, superare la terza fascia dirigenziale avente natura transitoria con l’inquadramento nell’istituenda unica fascia dirigenziale, agli esiti di una procedura selettiva per titoli ed esami”.
La “terza fascia” dirigenziale, istituita nel lontano 2000, rappresenta oggi l’unico bacino utile per la nomina dei dirigenti generali della Regione, dato che di “prima fascia” non se ne trovano e quelli di seconda si contano sulle dita di una mano. Il Commissario dello Stato, nel 2003, ha impugnato una parte dell’articolo 11 delle legge n.20 del 2003, in cui era prevista la possibilità di conferire gli incarichi dirigenziali generali anche “a dirigenti dell’amministrazione regionale appartenenti alle altre due fasce” oltre la prima, perché in violazione dell’articolo 97 della Costituzione (avrebbe compromesso, cioè, il buon andamento della pubblica amministrazione). Sentenza confermata l’anno seguente dalla Corte Costituzionale, che accoglie la questione di legittimità costituzionale sollevata dal commissario dello Stato e si pronuncia in maniera limpida e intuitiva: “Considerato che, dopo la proposizione del ricorso, la legge approvata dall’Assemblea regionale siciliana il 13 novembre 2003 è stata promulgata (legge regionale 3 dicembre 2003, n. 20) con omissione delle parti impugnate, sicché risulta preclusa la possibilità che sia conferita efficacia alle disposizioni censurate”, allora “dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso in epigrafe”.
I dirigenti di terza fascia, che un parere del Cga aveva equiparato a dei funzionari, non potrebbero ambire a incarichi dirigenziali. E i verdetti di tutti i tribunali – dalla Corte d’appello di Palermo ai Giudici del Lavoro – convergono al medesimo finale. Questo, però, è un capitolo che la Regione non ha mai voluto chiudere, nonostante le numerose sentenze di questi anni. L’assenza di dirigenti coi titoli, e l’impossibilità di procedere coi concorsi, ha determinato degli atti amministrativi a rischio illiceità, con l’ipotesi di abuso d’ufficio e danno all’erario (un incarico dirigenziale triplica i guadagni). E’ avvenuto anche all’alba della scorsa estate, col turnover dei capi dipartimento, promosso attraverso un atto d’interpello d’interno, senza passare dai concorsi. Nelle posizioni apicali, ancora una volta, si sono ritrovati i soliti dirigenti di “terza fascia”. Non è mica colpa loro, ci mancherebbe. E’ solo che il sistema ha preferito glissare e talvolta trasgredire alle indicazioni di legge. Sebbene la Regione conosca benissimo questo suo limite. Tanto da aver rinviato per mesi l’ultima infornata di nomine, e dopo aver richiesto un parere al Cga (ritenuto “inammissibile”) e all’Aran, che sul tema però hanno preferito non esporsi.
Oggi questo vulnus va colmato. Bisognerà rimettere a posto ai tasselli, come spiega Nello Dipasquale, deputato regionale del Pd, che ha segnalato più volte la condotta spregiudicata di Musumeci, suggerendo una riforma delle pubblica amministrazione e l’apertura di una stagione concorsuale per garantire ai più meritevoli un avanzamento di carriera: “Il fatto che, per ottenere in cambio dei benefici, si debba mettere per iscritto l’impegno a realizzare una riforma della dirigenza, ma anche dei forestali e dei consorzi di bonifica, è uno schiaffo in faccia al governo regionale – conferma oggi Dipasquale – Sono cose che noi diciamo da tre anni, e ci sono anche dei disegni di legge già presentati che vanno in questa direzione. L’accordo Stato-Regione per me è una grande soddisfazione, dimostra che non ero pazzo. Se riusciranno in questo percorso di riforme non lo so… Me lo auguro. Ma se non ce la faranno, non potranno scaricare sullo Stato eventuali responsabilità. Intanto papà Conte ci ha permesso di fare i bilanci e andare avanti. Speriamo che Musumeci non si rimangi tutto. Noi saremo qui a vigilare”.