Un rebus chiamato Tamajo

L'assessore alle Attività produttive, Edy Tamajo, ha lasciato il seggio europeo a Caterina Chinnici (foto Mike Palazzotto)

C’è un preciso momento in cui Renato Schifani crede di essere diventato onnipotente e dà un netto imprinting, più che in passato, alla gestione feudale del governo e di Forza Italia. Ed è il momento in cui dalle urne, alle ultime Europee, emerge il risultato stratosferico di Edy Tamajo: circa 121 mila preferenze, voto più voto meno. Schifani fa credere al resto della compagnia che sia farina del suo sacco. Forza Italia ottiene il 23 per cento (risultando il primo partito in 6 province su 9), ma né i voti di Cuffaro – quelli “puri” indirizzati a Massimo Dell’Utri, espressione di Noi Moderati – tanto meno quelli di Lombardo (reduce da una federazione con Antonio Tajani e dalla preferenza secca su Caterina Chinnici) gli appartengono. Così non gli resta che esibire la medaglia più lucente.

Tamajo è l’allievo prediletto. Quello che lo supporta su tutte le vertenze di peso (da Blutec ad Almaviva); e quello per cui s’è speso in campagna elettorale, come fa il maestro con l’allievo migliore (e anche perché gli altri, a partire da Falcone, meritavano una lezione). E’ dal 10 giugno che Schifani, acquisito il risultato, si sente invincibile. A tal punto da costringere lo stesso Tamajo in un angolo, per garantirsi le luci dei riflettori e gli attestati di merito che provengono da Roma. L’ex renziano, convertito a FI da qualche anno, sta toccando con mano il vero “tradimento”. Non ha ottenuto il seggio di Bruxelles perché hanno prevalso logiche romane (che Schifani, chiaramente, non poteva disattendere); non è diventato assessore alla Sanità, nonostante l’attuale, Giovanna Volo, sia un tecnico e fra i peggiori che il regno dorato di piazza Ottavio Ziino ricordi; è stato sospeso da Forza Italia – provvedimento dei probiviri, successivamente rientrato – senza che il governatore, autentico factotum del partito siciliano, abbia mosso un dito per evitare che venissero rimarcate la “slealtà” e il “discredito” nei confronti di Mulè e degli altri parlamentari azzurri. Non è bastata la nota riparatrice, e il richiamo ai valori comuni, per aggiornare i livelli di fiducia.

Era chiaro da tempo che Schifani sostenesse Tamajo allo scopo di tenerlo a bada, e basta. Passi per le 121 mila preferenze conquistate sul campo, un vero uomo-squadra si vede nel momento del bisogno: in occasione del rimpastino lampo, che ha portato alla sostituzione di Marco Falcone con Dagnino, Mr. Preferenze non ha toccato palla e si è dovuto “accontentare” della delega alle Attività produttive (da cui, negli ultimi giorni, ha sganciato 400 mila euro per 57 progetti utili a sostenere iniziative di sviluppo in settori come agroalimentare, artigianato, ambiente, nautica, moda, turismo, enogastronomia). Le mance di Tamajo sono differenti, toccano corde diverse – le imprese, non le associazioni di pagnottisti – e sicuramente gli serviranno ad aggregare consenso da qui al prossimo appuntamento elettorale.

Anche se si scontrano col rigore già annunciato dal neo assessore Dagnino, altro tecnico “di scorta”, che ha annunciato ai dipartimenti un taglio secco di 120 milioni (una parte destinata al trasporto pubblica, l’altra al ripiano del disavanzo) nella prossima Finanziaria. Il governo comincia ad avere le scarpe strette, dopo aver dilapidato milioni su milioni in sagre, chiese, campi sportivi. E quindi che fa? Inverte la rotta, meno prebende per tutti. Per Dagnino non fa alcuna differenza, dato che è capitato lì per caso e non sembra, al momento, possedere alcuna velleità politica.

Per Tamajo è diverso. La sua campagna elettorale non è mai finita. Ma al prossimo giro gli serviranno una squadra e dei protettori diversi. Specie se vorrà dare l’assalto al trono di Palazzo d’Orleans, che Schifani non è disposto a condividere con nessuno. Non ritiene gli undici deputati di Forza Italia meritevoli di un assessorato di livello, figurarsi il trono. Al suo posto, per giunta. I tentativi di Tamajo, alcuni ad opera del suo padrino politico Totò Cardinale, sono stati rintuzzati dal governatore, parso (peraltro) molto innervosito. Siamo davvero a un punto di non ritorno, tanto che l’assessore si starebbe convincendo di seguire i consigli di alcuni fedelissimi e divincolarsi dall’abbraccio di Schifani per trovare un vero referente romano. Voci di corridoio, qualche giorno fa, lo davano possibilista verso una riappacificazione con Falcone, dopo una campagna elettorale piena di tensioni.

D’altronde Edy ha un piede e mezzo fuori dal cerchio magico. Riceverà qualche altro encomio, fino alla scollatura definitiva. Ma resta l’unico, fra i deputati regionali, a poter fare la voce grossa. Più, con tutto il rispetto, di Margherita La Rocca Ruvolo, che dopo l’approdo di Gianfranco Micciché al Mpa, è arrivata a tuonare che “è stato messo il bavaglio al gruppo all’Ars. Prima è successo con Micciché, poi con Marco Falcone. Ora, a quanto pare, tocca a me e Gallo (l’altro agrigentino dell’Ars, ndr). È come se ci avessero messi in lista per certificare la nostra morte politica, quasi quasi erano dispiaciuti di questo risultato del partito”.

A posteriori è una riflessione condivisibile: l’unico a uscire relativamente vittorioso dalle elezioni dell’8-9 giugno è Schifani. Grazie ai voti di Tamajo. Che da un lato gli sono serviti per acquisire forza all’interno del partito, fino a esercitarne il controllo più pieno; e dall’altro gli hanno permesso di consolidare alcune alleanze, in primis con Cuffaro, che l’hanno posto al riparo da eventuali agguati. Lo scenario sta progressivamente mutando grazie al dinamismo di Lombardo, ma il vero colpo in canna ce l’ha Tamajo. Difficile che lo esploda prima di ottobre, quando Palermo sarà il cuore di una convention azzurra già annunciata da Tajani. Possibile avvenga dopo, se non dovesse materializzarsi il rimpasto con relativo upgrade (o magari con l’ingresso di qualcun altro dei suoi uomini – Nicola D’Agostino? – in giunta). La sottilissima differenza fra il possedere, o meno, una spina dorsale passa da questi piccoli dettagli: Forza Italia è davvero un partito monocratico, come ha suggerito l’on. Calderone in una sua recente intervista? O è ancora aperto e inclusivo, come professato da Schifani? A questa domanda potrà rispondere soltanto uno.

Alberto Paternò :

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