Per tutti è l’articolo 7 della Finanziaria. Quello che ha rischiato di rovesciare il governo e spingere Musumeci verso le dimissioni. Ma dietro la bocciatura di una delle norme più importanti della manovra, si cela un problema che non deve passare inosservato: la guerra fredda, tuttora in corso, fra Stato e Regione. Non è una novità e potrebbe ridursi a un mero calcolo elementare: giacché la Sicilia non ha mai offerto troppe garanzie al sistema-Paese, questo si “vendica”. Imponendole di saldare i debiti hic et nunc, virando su un sistema di autonomia differenziata potenzialmente dannoso, e bloccando opere (e operazioni) di sua stretta competenza. Comunque lo si guardi o analizzi, il rapporto è ai minimi termini.
Cos’è l’articolo 7? Trattasi di norma tecnica che avrebbe permesso, tramite l’accesso al “fondo rischi”, di liberare una prima tranche da 53 milioni per venire incontro alla sentenza della Corte dei Conti e saldare la primissima parte di un debito trentennale da 2,1 miliardi nei confronti di Roma. Ma è solo una conseguenza della questione generale. E’ attorno a questo debito, infatti, che nasce una vera e propria combutta, che rischia di lasciare l’Isola nel pantano. Qualche tempo fa, in sede di parifica, la Corte dei Conti – ossia il massimo organo di giustizia contabile – ha appurato qualcosa di sospetto nei bilanci approvati dalla Regione negli ultimi vent’anni (circa). I cosiddetti residui attivi. Che devono essere cancellati nel tempo. Da qui la necessità di accantonare delle somme – 53 milioni ogni anno con l’aggiunta dei 382 milioni da spalmare entro il 2020 – che di fatto aveva comportato lo stop alla Finanziaria e una serie aberrante di tagli alla spesa: dall’istruzione al trasporto pubblico, dai teatri alle associazioni antiracket. Ma, soprattutto, dai lavoratori dell’Esa a quelli dei Consorzi di Bonifica che, fiutato il pericolo, si sono riuniti in piazza del Parlamento per protestare e seminare grano.
L’idea che lo Stato, per rientrare da questo passivo, imponga un salasso di simili dimensioni al popolo siciliano, ancorché al governo regionale, è difficile da digerire. Nessuno ha detto che a Roma abbiano torto (anzi, a pensarci, avranno anche ragione). Ma non ci si può rassegnare all’idea che questo debito venga saldato a scapito delle fasce più deboli, che rischiano di finire senza stipendio e soffocate dalla carenza cronica di lavoro. Il governatore Musumeci e il suo vice Armao, come hanno fatto più volte in passato, dovranno tornare ai tavoli del Mef e chiedere, magari in ginocchio, al ministro Tria e ai funzionari di poter spalmare il debito mostruoso previsto da qui al 2020 in trent’anni. Un tentativo strenuo, quasi disperato, di strappare un impegno sulla fiducia, un bollino di buona condotta.
Ma nel frattempo l’Ars si è portata avanti, votando un piano C e salvando capra e cavoli. Per ottenere l’approvazione della Finanziaria il governo ha “vincolato” la quota di disavanzo del 2019 (vale a dire 191 milioni di euro) e garantendo con questa la copertura dei tagli annunciati in precedenza. Ma, soprattutto, dando per assodato che lo Stato acconsentirà a questo tipo di operazione e alla spalmatura della cifra su un periodo di tempo maggiore. E’, comunque, una dotazione che balla: al momento serve a garantire il ripristino di alcuni capitoli (ciechi, talassemici, scuole paritarie, teatri ecc.) ma che Roma potrebbe impugnare, paventando di nuovo il rischio del precipizio. Tutto dipenderà dal tipo di rapporto intessuto fra i due governi.
Quella relativa al disavanzo non è l’unica questione aperta. Un’altra riguarda l’autonomia differenziale che alcune regioni del Nord – le ricchissime Veneto e Lombardia, ma anche l’Emilia Romagna – sono sul punto di chiedere (e ottenere) sulla spinta della Lega. Ma anche di un paio di referendum consultivi tenuti a ottobre 2017 e delle prerogative dell’articolo 116 della Costituzione, che garantisce “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle regioni che ne fanno richiesta. Alcuni la chiamano secessione, perché con questo strumento le tre regioni citate otterrebbero un incremento di spesa pari a 21 miliardi per ottemperare alle nuove competenze: salute, lavoro, ambiente e istruzione. Soldi che verrebbero sottratti (anche) alla Sicilia – si stima una cifra tra i 2 e 10 miliardi – venendo meno al concetto di solidarietà a cui Musumeci, durante il discusso intervento da Vespa, ha detto di non poter rinunciare. Non solo. Veneto, Lombardia ed Emilia, almeno questo si evince da una bozza segretissima dell’accordo, potrebbero trattenere buona parte delle tasse. La forbice tra Nord e Sud, insomma, si allargherebbe a dismisura e la Sicilia rimarrebbe fregata.
La tensione palpabile nei rapporti fra Enti si è assaporata anche a Roma martedì scorso, quando Musumeci ha riunito attorno allo stesso tavolo i presidenti delle società di gestione degli aeroporti di Comiso e Trapani e il Ministero dei Trasporti per parlare di “continuità territoriale”, ossia l’istituzione di tratte a prezzi calmierati per agevolare gli spostamenti da e per l’Isola. Ballavano 46 milioni di euro (la ripartizione delle risorse prevede che sia lo Stato a sobbarcarsi i 2/3 dell’impegno economico), diventati 52 a causa di un aggiornamento contabile. Finché erano 46 lo Stato si diceva pronto a onorare i patti. Ma sugli ultimi 4 la discussione si è incagliata, provocando un rinvio. Toninelli, a quanto pare, non ha mantenuto le promesse.
E ancora: qualche tempo fa il presidente Musumeci ha giudicato in modo aspro il rendimento di Anas e Rfi, due compagnie a conduzione statale, impegnate a erogare servizi su strade, autostrade e ferrovie siciliane: “L’Anas si muove come un pachiderma. Assieme a Rfi sono diventati un cancro per la Regione” aveva tuonato il governatore. Anas, che fino a qualche tempo fa era in procinto di fondersi col Cas (il Consorzio autostrade siciliane), sembrava l’indiziata numero uno per farsi carico della condizione – terribile – delle strade secondarie, appartenute alle ex province fallite. Ma una convenzione non è mai stata firmata e la Regione entrerà in scena, da sola, per rimediare all’irrimediabile. Lo Stato, da par suo, continuerà a impoverire Città Metropolitane e Liberi Consorzi con un prelievo forzoso che ha spinto tutti quanti a un passo dal dissesto (Siracusa ha già dichiarato default).
Per chiudere il capitolo delle infrastrutture, in attesa che si palesi il commissario per la viabilità promesso da Toninelli a Musumeci, c’è anche il Cipe (il comitato per la programmazione economica del Ministero per l’Economia) che si mette di traverso per la realizzazione di un’opera, la superstrada Ragusa-Catania, su cui il dibattito è acceso da vent’anni. Nonostante gli annunci in pompa magna dei ministri a Cinque Stelle (fra cui quella del Sud, Barbara Lezzi) è stata rimessa in discussione la sostenibilità finanziaria dell’opera e i costi di un pedaggio ritenuto troppo alto. Mossa che ha scatenato l’ira di Marco Falcone, assessore regionale alle Infrastrutture.
Di casi “spiccioli” di cui parlare è piena l’attualità: uno, indicativo, è il trasferimento dei servizi di Riscossione Sicilia all’Agenzia delle Entrate. Un provvedimento che da mesi attende una risoluzione. E che, al termine del 2019, in caso di mancato accordo, potrebbe portare alla creazione di un nuovo ente regionale in grado di riscuotere i tributi sull’Isola. A proposito del tavolo, l’ennesimo, aperto con il governo centrale, l’assessore Armao si è limitato a dire che “le interlocuzioni sono avanzate. In questo anno abbiamo dovuto costruire un rapporto che non c’era. Quella norma sulla liquidazione di Riscossione Sicilia fu approvata senza aver consultato l’Agenzia delle Entrate né il Ministero dell’Economia”.
Il guanto della sfida è lanciato. Da una battaglia col governo gialloverde, però, la Regione rischia di uscire con le ossa rotta. Per questo – preso atto che Musumeci difficilmente si farà da parte – non andrebbe scartata la proposta del Movimento 5 Stelle, disposto a diventare la stampella del governatore per portare a termine 4-5 riforme e assicurare un futuro alla Sicilia (anche se ieri la disponibilità sembra venuta meno). Pure questo somiglia a un mero calcolo elementare: ma i buoni uffici romani e i contatti, indiscutibili, col governo Conte potrebbero distendere i nervi e accelerare gli esiti di vertenze aperte da troppo tempo.