Ci vorrebbe un geolocalizzatore per capire dove Vincenzo Pirrotta ha girato certe scene di «Spaccaossa», suo esordio da regista nel cinema dopo decenni di personaggi interpretati sia sul palcoscenico che sul grande e piccolo schermo. Perché nel film – che dopo i festival di Venezia e Tallin – arriva nelle sale il 24 novembre – Palermo potrebbe anche essere una città qualsiasi, purché una città del male, ma è Palermo non foss’altro perché palermitana è la storia di cronaca vera che viene raccontata: quella arcigna, malevola, violenta di chi per profitto o necessità era pronto a frantumare arti e disposto farsi rompere braccia, ginocchia, gambe in cambio di una percentuale sul premio assicurativo, una furberia tra cinismo e tragedia, tra dissoluzione e avidità, tra miseria e delinquenza che fu scoperta nell’agosto del 2018 dall’operazione “Tantalo”. Una vicenda tra mito ed epos tanto è surreale, tanto è lontana da una realtà estrema anche la più barbaramente immaginabile, di quelle che per raccontarle è necessario scendere negli abissi della morale.
E’ una città che vive sotto il ricatto del bisogno, di necessità primarie e voluttuarie (il pacco di biscotti per la bambina e al tempo stesso il cachet al cantante di piazza per la festa della prima comunione), una città che ha i colori lividi in cui la immortala la fotografia (sapiente, ormai magistrale) di Daniele Ciprì, come se una bruma scendesse dal cielo, oltre che nell’animo, anche sulle carnagioni dei personaggi, sulle facciate scabre dei palazzi di periferie lontane o di catapecchie a due passi dai fasti inutili della Storia, come se un albume la offuscasse, la invischiasse, la imprigionasse, questa Palermo, le promettesse colori per poi negarglieli.
La promessa della banda di “spaccaossa” (perfettamente inquadrata come un’azienda tra boss e gregari, riscossori e procacciatori di clientela, fiancheggiatori nelle istituzioni tra infermieri e periti) è quella di un po’ di denaro che ristori la quotidiana sopravvivenza. È una storia agghiacciante di violenza pubblica e affetti privati che non potrebbero trovare sintesi in nessun cuore e in nessuna testa: mentre Vincenzo (lo stesso Pirrotta, cattivo malgrado sé con grande misura) cerca vittime-complici da “spaccare” massaggia le gambe alla madre anziana che è la sordida cassiera, rosario tra le mani e sguardo fisso sulla tv, di quel traffico familiare, mentre sembra che s’innamori di una tossica che verrà essa stessa “spaccata” organizza il funerale del cliente che ci lascerà la pelle (sarà quella morte che farà scoprire il caso di cronaca, che farà saltare il coperchio di quel ripugnante negozio di corpi da frantumare).
Come fa per il suo teatro, sottraendosi cioè al realismo tout court, Pirrotta firma un film crudo ma non lubrico, severo fino all’osso e solo apparentemente anaffettivo, asciutto di parole (il soggetto è a quattro mani con Ignazio Rosato e nella sceneggiatura intervengono anche Salvo Ficarra e Valentino Picone che proseguono così una marcia coraggiosa anche da produttori di un cinema d’autore, sociale si sarebbe detto un tempo), dirige un cast amico dove la disperazione spigolosa di Selene Caramazza, il disprezzo dell’umanità di Ninni Bruschetta, la livida managerialità di Giovanni Calcagno, la pavida spavalderia di Luigi Lo Cascio, l’ineluttabilità al martirio di Filippo Luna e il cuore ambivalente di Aurora Quattrocchi suonano ognuno un tasto diverso. E, più tra sguardi e silenzi che con parole, si intaglia una cornice stupenda Simona Malato, fino all’icona di sé, quasi una contemporanea Paxinou.