Renato Schifani dice – e lo dice sinceramente perché è una persona per bene – che non si farà tirare la giacca da nessuno: ma attaccato alla sua giacca c’é, fin dal 26 settembre, l’impresentabile Bullo. Il quale è lì che traccheggia, che piritolleggia, che consiglia e insinua, che semina zizania, che tenta di piazzare i suoi uomini e i suoi intrighi, che cerca nuove vie per tutelare i propri affari e i propri privilegi. Ha abbandonato i panni dello statista in cerca di consensi e si è travestito da eminenza grigia, da regista occulto, da Tigellino alla corte del nuovo imperatore. Ruggero Razza, l’uomo che per cinque anni ha spadroneggiato sulla sanità – e che voleva persino annettersi, con l’Oasi di Troina, le terre di Santa Romana Chiesa – è più cauto, più sinuoso, più gesuitico. Aspetta la convocazione a Palazzo d’Orleans per dare il suo contributo alla formazione della nuova giunta e ottenere garanzie per i suoi apparati, per i suoi collaboratori, per il suo Cefpas – “Razza che vai Cefpas che trovi” – e per il suo sistema di potere. Si muove anche il Balilla, meglio conosciuto come il Cavaliere del Suca: vuole e pretende che il suo successore al Turismo non smonti la prodigiosa macchina “Spendi e spandi” che gli consentiva di lucidare, con i soldi dei siciliani, i bilanci di Mediaset e di Urbano Cairo editore, e di pavoneggiarsi con Francesco Lollobrigida, l’onnipotente cognato che gli ha fatto da padrino politico. Aspettatevi di tutto, signori miei: anche il governo di Renato Schifani diventi, per interposta persona, un Musumeci bis. Un governo con le facce nuove ma controllato sottobanco dagli antichi guardiani del potere, dalle stesse conventicole e dalle stesse lobby che per cinque anni hanno ispirato il cerchio magico di Nello Musumeci.
L’ex governatore – al quale Giorgia Meloni ha regalato un biglietto di prima classe per il Senato della Repubblica – non ne fa mistero. Tra le sue ambizioni e tra i suoi progetti più caldi c’è quello di diventare ministro per il Mezzogiorno. Traguardo che gli consentirebbe di controllare il flusso dei fondi europei, di stabilire una liason con il Bullo o con l’uomo che per conto del Bullo andrà al Bilancio, e di stringere Schifani in una tenaglia inesorabile e funesta. Se poi la “confraternita degli ex” riuscirà a mantenere comunque – Razza o non Razza – le mani sulla Sanità, il cerchio si chiuderebbe automaticamente: di fatto avrebbero il controllo di tutti i soldi destinati alla Sicilia. Ormai lo sanno pure i bambinetti dell’asilo: le Finanziarie, quelle che da cinque anni vengono approvate mediamente con un ritardo di quattro mesi, sono documenti ingessati: servono sì e no per coprire le spese correnti e obbligate. Un minimo di sviluppo – e di moneta circolante – la Sicilia potrà sperare di averlo con gli stanziamenti del Pnrr, in gran parte già ipotecati dalle scelte fatte da Razza, con i fondi europei e con miliardi che lo Stato versa ogni anno alla Regione per garantire il Servizio sanitario nazionale.
La “confraternita degli ex” è ancora molto forte e, viste le aperture di credito fatte da Schifani alla convention sulla Sanità organizzata a Catania da Razza, sta facendo le umane e le opache cose, per mantenere le posizioni dentro e fuori Palazzo d’Orleans. Resta un solo interrogativo: Giorgia Meloni avrà lo slancio patriottico – il coraggio, stavo per dire – di assegnare il ministero per il Mezzogiorno a un Musumeci che in cinque anni, da governatore della Sicilia, ha speso appena la metà dei fondi stanziati dall’Europa per la coesione territoriale? Da Bruxelles sono piovute critiche feroci e rimproveri roventi, con la minaccia fin troppo seria che i due miliardi non spesi saranno dirottati verso altre regioni, verso altri territori, verso altre emergenze. Giorgia a queste cose sta molto attenta.