Il sole dell’alba regala spessore e intensità cromatica alle rovine di Ortigia. Più tardi saranno bianche, a tratti abbaglianti. Alle 6 del mattino no. Sono pitturate di un giallo che diventa quasi malato e spietato, come i colori di “Sin City” di Frank Miller, quando s’accanisce sulle “ree pentite” e sui carmelitani scalzi e sui militari ammalati e sulle migliaia di “cassette di scavo”, sulle stratificazioni di storie, di vite, di esistenze e fallimenti di quel palazzo sul lungomare di levante che per la maggior parte dei siracusani è “l’ex distretto” dove si andava per fare la visita militare.
Oggi è un rudere con la facciata orrendamente incerottata da “lapazze” degne dei cantieri d’antan. Oggi è una vergogna pericolante circondata da recinzioni mezze divelte, tristemente incastonata fra altre due tristezze: la chiesa dello Spirito Santo verso il Maniace e il complesso di San Domenico verso la Gancia, a segnare il confine fra i vecchi quartieri del Castello e della Turba.
E’ un progetto di lenta distruzione senza padri e madri, o forse con tanti, troppi genitori per trovarne uno davvero interamente colpevole o davvero interamente innocente.
Mentre il sole ingiallisce la facciata sfregiata dal grande rattoppo (che forse serviva a celare i lavori per la rimozione di superfetazioni incongrue, ma da anni è lì, ed è una pezza peggiore del buco) la luce si infila, crudele, dentro le finestre aperte, sfiora una palma vecchissima che sbuca alta da un qualche cortile interno, apre sciabolate di chiarore lasciando intravedere, dai buchi delle dirute chiusure, lo sfacelo interno.
Nell’isola del primo mattino, quando i cento alberghi, b&b, case vacanza si svegliano e odorano di cornetti e cappuccini, le ree pentite si pentono ancora, i carmelitani scalzi appaiono più scalzi che mai. E’ una voragine di malinconia e di rabbia quel luogo spettrale, che si affaccia sulla spiaggetta di Cala Rossa per la quale la meglio Siracusa ha fatto le barricate perché tutti potessero frequentare quel pietrisco in riva al mare sotto il cadavere di un pezzo di storia.
Cadavere sfregiato dall’incuria e dall’indifferenza, dalla sensibilità a geometria variabile di una città che s’appassiona e s’indigna per i dehors che strangolano i vicoli, per il bar astronave che arreda fantascientificamente la piazza d’armi, per la villa Abela nata alcuni secoli dopo il pentimento delle ree e demolita con grade fragore di calcinacci e polemiche.
Qui, tagliato dalla luce obliqua del primo mattino, in via Santa Teresa (insegna sotto la quale s’intravede quella più antica di via Ospedale) piange il portone della Chiesa dedicata alla santa cui erano devoti gli scalzi: l’arco cadente mezzo riempito da mattoni, con dietro una porta sfondata e accanto, come un atto d’accusa, una insegna dai supporti arruginiti: Chiesa Santa Teresa, secolo XVIII. Di questo passo potrebbe non arrivare alla fine del secolo XXI, a insaputa della maggior parte dei Siracusani. Ma non di tutti.
Dovrebbe saperlo in primis la Soprintendenza visto che da qualche parte, nel ventre molle della Caldieri, caserma che occupò alla fine del Settecento sia le stanze delle ree che quelle dei teresiani, ci sono migliaia di cassette di scavo, materiali archeologici che andrebbero studiati, catalogati e che stanno invece lì ad aspettare un Godot che non arriva.
Perché a un certo punto, sul crinale dei due millenni, sembrò che la Caldieri potesse rinascere. Il Demanio la affidò alla Soprintendenza che fece dei lavori di “somma urgenza” per evitare crolli e danni ulteriori ed elaborò un progetto di restauro che intendeva trasformare il complesso in una prestigiosa “dependance” del museo Bellomo, dove esporre le tantissime opere che non trovano spazio nei locali attuali e in cui creare un magazzino razionale per i reperti e ambienti adatti alla conservazione e allo studio dei materiali. Ci fu anche uno stanziamento regionale di alcuni milioni per i primi lavori. Sembrava potesse rinascere.
Ma non accadde. Cambiarono aria e teste negli uffici di Piazza Duomo, il progetto non andò avanti, la Regione ritirò il finanziamento e un paio d’anni fa l’Assessore Tusa, su indicazione della Soprintendenza, “restituì” il complesso al Demanio. Finale di partita; chissà perché quel progetto venne abbandonato consegnando la Caldieri allo sbriciolamento inesorabile e oltraggioso.
Ma le chiavi pare stiano ancora in Piazza Duomo per via delle famose cassette di scavo dimenticate fra un chiostro violentato e una loggia semicrollata.
In quel serbatoio disordinato di memorie che è la rete si ritrova anche una “Determina a Contrarre” dell’Agenzia del Demanio, protagonista di discutibili scelte a spese della città. La determina, del 17 aprile 2018, è “per l’affidamento del servizio per la realizzazione di studi di sostenibilità economica e giuridico-amministrativa per la miglior gestione di 10 immobili statali inseriti nell’ambito del c.d. Progetto n.6”. Fra questi immobili ci sono due dei buchi neri del lungomare di levante: l’ex convento di San Domenico e, appunto, “L’infermieria militare ex Caserma Caldieri”. Una serie di studi tecnici e professionisti di tutta italia vengono invitati a partecipare alla “richiesta di offerta” per un servizio volto a individuare le migliori strategie per “operazioni di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico”. Quali strategie siano state individuate non è dato sapere, di certo non sono state attuate.
La prima mattina lascia spazio alla canicola d’agosto. Il palazzo sbianca mano a mano che sale il sole, mentre a Calarossa un bagnante mattutino raccoglie l’asciugamano e va via. Un altro giorno inizia ad arroventare macerie, fallimenti, irresponsablità, negligenze, ignoranze. Per fortuna che le ree pentite, i carmelitani scalzi, i soldati ammalati non lo sapranno mai.
(Tratto dal blog Strummerleaks di Toi Bianca)