Evvai con il libero insulto

Quando, in “Pigmalione”, George Bernard Shaw metteva in bocca al professor Higgins la celebre battuta su “quel certo inglese che ti tiene legato ai bassifondi”, di certo non immaginava che, centocinque anni dopo, la stessa dicotomia di lessico e di pensiero che inchiodava il cockney di Eliza Doolittle a un destino di fioraia ambulante, mentre garantiva ricevimenti in ambasciata e opportunità di lavoro al professor Higgins, si sarebbe riproposto nell’Italia che, da una parte, manda al Salone del Libro un saggio sull’aggressività verbale prefato da Nicola Lagioia, e dall’altra offre al pubblico della tv generalista, che al Salone perlopiù non va, lo spettacolo immondo del branco del Grande Fratello che una sera insulta e attacca una delle concorrenti, e il pomeriggio dopo si fa cogliere dalle telecamere mentre scambia opinioni di triste oscenità sui gusti sessuali di un concorrente.

Ci sono molti strumenti per segare i pioli della scala sociale ma quello che il marxismo più temeva, a ragione, è l’ascia dell’ignoranza usata a scopi liberisti; nel nostro caso, in ossequio al moloch dell’audience. Il profluvio di oscenità e di insulti rivolti nel corso del Grande Fratello a ogni categoria portatrice di handicap e la successiva, orchestratissima sfuriata della conduttrice Barbara D’Urso contro i suoi concorrenti, ha portato infatti a uno share medio del 27 per cento, dimostrando, tesi liberista, che l’oscenità e l’aggressività “sono quanto vuole il mercato” e che, il seguito potreste aggiungerlo voi come in una litania, “è il mercato a decidere”.

Se vogliamo metterla sul grado 0 dell’intrattenimento, il presunto mercato sarebbe pronto a vedere in diretta anche stupri, sgozzamenti e percosse inferte agli infermi, e dopotutto è questo che trova cercando sul web e fra i social e che di solito accoglie con una salva di like. Ad eccezione delle faccine e dei pollici alzati, questo è quanto si legge anche nelle cronache della Rivoluzione Francese, fra le foto della Liberazione del 1945 e sui reportage dall’Etiopia: immagini e racconti di gentaglia che assiste fra risate e sghignazzi alle atrocità di cui sopra e che, anzi, vi partecipa appena possibile e soprattutto se certa di uscirne impunita.

Le cose stanno sempre ed esattamente come cento e duecento anni fa, a dispetto dei diversi mezzi di comunicazione e del ricco, apparente ventaglio di opportunità offerte a tutti: mentre nel mondo alla portata popolare viene data in pasto una nuova saga dei Rougon-Macquart, purtroppo senza la penna di Emile Zola a raccontarne vizi e tare contando sull’avvento di una rivoluzione sociale che possa sollevarli dal loro abbrutimento, nel piccolo universo di chi legge e continua a farlo ci si dota invece di mezzi lessicali atti a far sì che le masse prive della stessa consuetudine alla lettura usino parole che non conoscono. Una palese contraddizione: mezzi educativi per chi è già educato.

Eppure, il “Manifesto della comunicazione non ostile”, lanciato lo scorso anno anche nelle scuole e di cui questo libro Laterza è testimonianza in forma narrata, rappresenta una piccola zattera di civiltà che non si può mandare alla deriva nella melma, e a cui bisogna giocoforza aggrapparsi. “Se oltre all’uso della lingua, ciò che ci distingue dalle altre specie è il possesso del libero arbitrio (o perlomeno di un arbitrio non del tutto precluso), allora usare le parole per evolverci o tornare a essere dei bruti è il nostro banco di prova quotidiano”, scrive Lagioia nell’introduzione, ed è impossibile contraddirlo.

Come sapete, al Foglio amiamo legare i politicamente corretti con le stesse corde delle loro ipocrisie e difendere la satira a oltranza. Esiste però un gradiente di aggressività verbale che, con la complicità silente ma non latente dei social media, da qualche tempo ha risvegliato le peggiori coscienze alitando loro addosso un fiato fetido di presunzione, vanità e idiozia e che va combattuto. Il Grande Fratello 15 ne è solo l’ultima espressione, la deriva più visibile e immediata, proposta alla nonna che non usa Internet e dell’adolescente di casa che lo guarda in streaming fra i banner della pasta al sugo precotta e delle merendine, non si capisce per quale motivo interessati ad associare il proprio marchio a simile immondizia.

Anno dopo anno, giorno dopo giorno, è però e innanzitutto il web ad aver alimentato, cullato e premiato bullismo, maleducazione e violenza verbale, ammantandoli di manifesta “ironia”, annullando l’offesa in un presunto chiacchiericcio mondano o affogandola nella finta legittimità del dibattito politico. #sifaperdire. Hashtag-ma-non-è-una-cosa-seria. “Mongoloide”. Volevo scherzare. “Puttana”. Non intendevo offendere. “Laido”. Non ne conosco il vero significato. E talvolta, non si tratta di falsa ignoranza: il lessico dell’italiano medio è inferiore alle diecimila parole, di cui solo ottocento vengono usate con grande frequenza. Uno dei più noti modelli di persuasione, la cosiddetta “finestra di Overton”, dal nome del suo teorizzatore, sociologo e attivista statunitense scomparso nel 2003, dimostra come qualunque idea, anche la più folle e inaccettabile, possa essere sposata dall’opinione pubblica, purché proposta in diversi gradi e stadi condivisibili. La premessa a contrariis, seguita dall’avversativa, ne è parte integrante: “Io non sono antisemita ma”. “Io non sono razzista, però”. “Io amo le donne eppure”.

Per far sì che qualcuno si appropri di una certa idea e la faccia sua, talvolta è sufficiente che un personaggio politico e pubblico la promuova con espressioni caricaturali o estreme, offrendo dunque il destro alla smentita o alla dura presa di posizione contraria, perché attecchisca e inizi a germogliare: non c’è per caso l’ironia, alla base della politica Cinquestelle di Grillo? Non ci sono sempre la smentita e la dura reprimenda, e sempre un po’ in ritardo, agli atti di bullismo e alle espressioni violente dei concorrenti del Grande Fratello? E’ trascorso meno di un mese da quando Paola Cortellesi lesse il suo monologo ai David di Donatello, una riflessione sul doppio significato di certe espressioni declinate al maschile o al femminile (“cortigiano/cortigiana”; “passeggiatore/passeggiatrice”). “Sono soltanto parole”, disse mentre veniva sommersa dagli applausi che, non ne ho dubbi, scoppiarono anche nei milioni di case che oggi godono degli insulti sessisti e delle volgarità del Grande Fratello: “Però”, aggiunse, “se fossero la traduzione dei pensieri allora sarebbe grave, sarebbe un incubo”.

Quattro settimane e molti soldi pubblici spesi in campagne contro il bullismo dopo, gli autori del Grande Fratello danno libertà di parola a un tipo che attacca letteralmente una ragazza al muro dicendo di “essersi lasciato andare”. La voce del peggio abbandonata alla propria nequizia, senza possibilità di capire e di migliorare. E invece ogni parola conta, ogni espressione è dirimente e, come ha provato la John Hopkins University, influenza l’attività cerebrale, danneggiandola. D’altronde, quante volte ci siamo trovati a “bannare”, cioè a cancellare, mettere al bando, commentatori così ostili ai nostri post da mozzarci il fiato? E quanti, fra i nostri “amici” di facebook, abbiamo avvertito che cancelleremo alla prossima espressione razzista, al nuovo insulto, all’ennesima banalità disinformata?

Stiamo diventando i garanti del nostro stesso benessere sui social, impossibilitati però a farlo in tv e a proteggere i soggetti più deboli e impressionabili, esposti a ogni suggestione, titillati dall’orrore. Viene da domandarsi come riesca quella faccina pulita di Francesca Fialdini con il suo “Caffè” di sentimenti e carriere normali delle tre del pomeriggio a tenere testa a “Uomini e Donne” con i tronisti oliati. I presunti talent sono diventati teatro di risse dove vince il più aggressivo, mentre in rete i controlli sono talmente labili da sfiorare l’insussistenza. Sul web, chiunque nutre la convinzione di poter attaccare qualunque sconosciuto in forma anonima o persino in modo palese, “mettendoci la faccia” come si dice adesso, addirittura nella speranza di farsi notare, di trasformarsi in un commentatore ascoltato, da invitare nelle trasmissioni di seconda serata. “Che rischio è una Parola! Quando penso ai cuori che ha speronato o affondato, a malapena oso alzare la voce per qualcosa di più di un saluto”, scriveva Emily Dickinson. Eppure, senza quel rischio, cosa saremmo? Instillare nuovamente il tema del valore della discussione in una politica che va modellandosi sul vaffa vincente di Grillo e le sue derivazioni non è facile; meno ancora chiarire ai più giovani, ma pure ai più maturi che, forse, dalla presunta assenza di regole si sentono “liberati”, il confine sempre più inesistente fra pubblico e privato, un non luogo dove le emozioni contano più delle informazioni, la volgarità viene equiparata all’autenticità e tutti si salutano col cafonissimo “salve”, che è un po’ meno di buongiorno, ma un po’ più di ciao.

Che cosa rappresenta la parola? Il conforto di odiare una persona che non ci conosce, tema di uno dei racconti selezionati nel libro Laterza, oppure la scelta estrema del suo contrario, il silenzio, quell’arma a doppio taglio che, mentre ci sottrae al costante giudizio altrui, in un mondo abituato alla presenza e all’opinione in diretta a oltranza rischia di farci apparire degli asociali, degli isolati o, vera parola tabù di questi tempi per l’appunto inclusivi, degli snob? Parlare si deve. Ma se, come ipotizza Lagioia in un felice paradosso, ogni parola usata è un possibile attentato contro la specie, allo stesso modo in qualunque nostra parola può nascondersi, ogni giorno, il segreto della nostra liberazione.

Fabiana Giacomotti per Il Foglio :

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