I due morti di Pantelleria, i tre del Catanese (fra Scordia e Gravina) e quello di Modica, tutti provocati dal maltempo, sembravano il punto più alto della sfiga toccata alla Sicilia in questo 2021 maledetto (al netto del Covid). Poi è arrivata Ravanusa, col suo carico di gas e devastazione. Sette vite infrante, anche se potrebbero essere di più. L’apice della sciagura in una terra desolata e incarognita. Che non riesce a risollevarsi, a trasformare le disgrazie, anche le più atroci, in insegnamenti e opportunità. Macché. Qui è tutta un’emergenza che si dilata. Se piove le strade si allagano; se piove più forte i ponti crollano (come accaduto qualche giorno fa nei pressi di Alcamo marina, nel Trapanese); se diluvia e tira vento la gente muore.
Anche su Ravanusa bisogna fare luce. La Procura di Agrigento ha aperto un’indagine per disastro colposo a carico di ignoti. Alcuni testimoni hanno confermato di aver sentito puzza di gas da una settimana, e il collaudo di cinque giorni prima sull’impianto è sotto la lente d’ingrandimento. Non regge la tesi del destino cinico e baro, si cercano i responsabili. Una perdita nelle tubature del metano, sabato sera, si è trasformata in un disastro che ha interessato una quarantina di abitazioni. Quattro palazzine sono venute giù come birilli, trascinando parecchie vite nel miscuglio di fango e detriti. Solidarietà si somma a disperazione, ma non riuscirà a fornire sollievo ai parenti delle vittime. Né a far vedere la luce al bambino ancora in grembo della povera Selene. Tutto è finito per sempre e le lacrime non si asciugheranno.
Nella Sicilia dei tormenti basta riavvolgere il nastro degli ultimi mesi per ritrovarsi di fronte a un’ecatombe. I morti per maltempo, gli ultimi della serie, sono sei. Il 17 novembre, alle 6.30 del mattino, il 53enne modicano Giuseppe Ricca è stato sbalzato via e ucciso da una tromba d’aria che si è abbattuta su Frigintini, frazione di Modica. Derubato della vita in un attimo. La furia tremenda del maltempo, unita alle scarse precauzioni adottate dagli uomini e della politica (oltre che dai cattivi comportamenti, che però hanno radici più profonde della negligenza), ha fatto scalpore a fine ottobre a Catania. Le immagini della piena di via Etnea, facilmente rintracciabili sui social, rimarranno impresse ancora a lungo nel cuore e nell’anima dei catanesi. Scuole chiuse, piani saltati, aziende danneggiate (come lo storico mercato della Pescheria). Investite dalla forza dell’acqua. Costrette a issare bandiera bianca, in attesa di un qualche risarcimento che tarderà ad arrivare.
Immediatamente dopo aver visto le immagini del disastro – che è costato la vita a un bracciante agricolo di Scordia e a due coniugi di Gravina (in entrambi i casi la Procura ha aperto un’indagine per omicidio colposo) – il governo Musumeci ha deliberato lo stato di crisi e di emergenza regionale, chiedendo a palazzo Chigi il riconoscimento dello stato di calamità. Promettendo, nel frattempo, la ricognizione completa dei danni. Quel faldone è sempre aperto dal momento che solo pochi giorni fa Palazzo d’Orleans ha aggiunto alla lista dei paesi falcidiati altri 22 comuni, tra cui quello di Pantelleria, che il 10 settembre era stata sferzato da una violentissima tromba d’aria che aveva ucciso altre due persone (fra cui un vigile del fuoco, il 47enne Giovanni Erera). E quelli investiti dalla coda – per fortuna meno traumatica – del ciclone Apollo, che aveva minacciato le coste del Siracusano. Il totale dei Comuni investimenti – più o meno direttamente – da eventi calamitosi nell’arco di un paio di mesi (ottobre e novembre) sono 210. Secondo una iniziale stima dei danni fatta dal dipartimento di Protezione civile, l’importo complessivo necessario per gli interventi urgenti è stato quantificato in 20 milioni di euro, quello per gli interventi strutturali di riduzione del rischio in 250 milioni.
Il governo Musumeci dice di averne spesi molti di più – tutti quelli disponibili – per le opere di contrasto al dissesto idrogeologico. Ma le catastrofi, ormai a cadenza regolare, si ripetono. E fanno breccia in un territorio fragile, che si sgretola, che ansima di fronte alla furia del maltempo. I cambiamenti climatici, è vero. Ma quella è una curva ascendente che, a differenza dei contagi, ci vorrà più tempo per reclinare. L’unica opzione è resistere, ma non sempre ci si riesce coi mezzi a disposizione. Ne è prova il dramma vissuto dai palermitani. Nel giorno del festino di Santa Rosalia dello scorso anno, l’allagamento dei sottopassi di viale Regione siciliana per poco non si trasformò in tragedia. E ancora oggi, quando piove, tremano i polsi. In questi giorni circolano le foto – ormai un classico – della frazione di Mondello totalmente sott’acqua. Ieri è esondato il Papireto, e le vie del centro si sono ingrossate. Qualche tempo fa –la memoria è ancora vivida – finì malissimo a un nucleo familiare riunito in una villetta di Casteldaccia, spazzata via da un’alluvione. L’eco delle tragedie si esaurisce in fretta. E il braccio meccanico della logica, che imporrebbe alla politica di intervenire, anche con un piano straordinario di prevenzione, si aziona a intermittenza.
Anche la Protezione civile, nelle ultime ore, sembra rimasta a secco. Lo rende noto il deputato regionale del Movimento 5 Stelle, Luigi Sunseri: “Il capo della Protezione civile regionale ha inviato un messaggio ai sindaci, dicendo che non ci sono più somme per gli interventi di somma urgenza. Fin quando l’Ars non approverà le variazioni di bilancio, non sarà possibile intervenire. Una situazione gravissima, che fa raggelare il sangue, soprattutto di fronte alle gravi calamità naturali, e non solo, che si stanno verificando nell’Isola nel periodo invernale”. Sunseri evidenzia come “da oggi la Protezione civile non potrà più intervenire e neppure contribuire, a causa dell’esaurimento delle risorse nei capitoli di spesa della Regione. Questo vale non solo per quanto è accaduto o accadrà in futuro, ma anche per quelle situazioni di emergenza decretate dai Comuni nelle settimane precedenti e che non sono state ancora pagate”.
Ma non c’è solo il maltempo. Altri stati d’emergenza sono fioccati per l’eruzione a più riprese dell’Etna. La prima volta il 2 marzo, quando il governo regionale chiese a Roma lo stato d’emergenza nazionale per 13 comuni ricadenti nell’area sommitale del vulcano, ma anche per altri 30 del circondario, finiti sotto un tappeto di cenere e lapilli. Un sacco di eventi parossistici si erano verificati a partire dal 16 febbraio. E si sono riproposti qualche mese più tardi, a settembre, quando l’eruzione è proseguita (anche se in forma minore). In quel caso palazzo d’Orleans ha annunciato l’impegno di altri 2 milioni di euro a valere sul bilancio regionale, dopo il milioncino liberato a giugno. Soldi utili alla rimozione della cenere e al ripristino della viabilità.
Un problema più o meno simile lo vivono gli abitanti (pochi: circa 500) dell’isola di Vulcano, nelle Eolie. Ma non a causa della cenere, bensì dell’emissione dei gas tossici che potrebbero avere gravi ripercussioni sulla salute. E’ passato poco meno di un mese da quando il presidente Musumeci ha dichiarato lo stato di crisi e di emergenza regionale, allo scopo di attivare tutte le iniziative necessarie a garantire la risposta operativa sul territorio, la mitigazione dei rischi e l’assistenza alla popolazione colpita dal progredire dei fenomeni vulcanici. Il sindaco di Lipari, Marco Giorgianni, aveva firmato un’ordinanza per vietare ai cittadini il pernottamento e la permanenza nella zona dell’area portuale dell’isola di Vulcano e in quelle adiacenti, a causa dei livelli di gas prodotti. Che adesso sono monitorati dall’Arpa. L’obiettivo di tutti è salutare questo 2021 quanto prima, e scacciare via la malasorte.
Il futuro della Sicilia resta povero di anticorpi. Ma il presente, quasi del tutto privo di risposte, è anche peggio.