Meloni e Salvini – uno a te, uno a me – hanno deciso di spartirsi comune di Palermo e presidenza della Regione. Manca la conferma alla notizia ma, se è così, sarebbe nell’ordine naturale delle cose e si chiuderebbe la giostra dei tanti che in questi mesi, sulle macchinine dell’autoscontro, hanno giocato a proporsi come candidati a palazzo delle Aquile e a quello dei Normanni. Tutto torna nella disponibilità di chi ha la forza per decidere e decide secondo calcoli che non riguardano né Palermo né la Sicilia, non vengono fatti né a Palermo né in Sicilia ma a Roma, e sono, semmai, rapportati alle elezioni politiche. Ché se dovessero essere anticipate, quelle del capoluogo cadrebbero sempre prima, se invece arrivassero alla scadenza naturale della legislatura, entrambe, quella del comune e quella della Regione sarebbero il prologo del confronto nazionale.
Alla decisione dei due leader della destra, in Regione, speciale per autonomia, aggettivo ormai privo di valore, ma colonia nei fatti, non c’è nessuno che potrà opporsi. Non certo Miccichè che troverà ruolo nella riffa della capitale alla presenza e con la benedizione di Berlusconi. E i dieci piccoli indiani del centro, quelli che dovevano dare una tinta meno vistosa e inelegante all’alleanza con la destra per renderla appetibile ai moderati? Quelli non verranno certo uccisi ma indotti a tornare al ruolo che hanno interpretato da quando il centro, quello della vecchia Democrazia cristiana, un partito che, come diceva De Gasperi, guardava a sinistra e chiudeva fermamente alla destra neofascista, un partito che aveva consensi, storia e cultura e che per cinquant’anni costituì il perno del sistema politico a Roma e a Palermo, scomparve. Alcuni suoi modesti epigoni scelsero di diventare ancillari alla destra, pur senza abbandonare la pretesa velleitaria di rivendicare di tanto in tanto un ruolo più grande di loro, vivendo di rimpianti e di illusioni.
Negli anni ho ricevuto innumerevoli inviti a partecipare ad incontri per resuscitare la Democrazia cristiana o comunque per ritrovarci tutti, con i ricordi e le grucce, al gioco senile di quanto eravamo forti e di quanto restiamo, con qualche ragione in questo caso, più bravi di quelli che ci hanno sostituito in Parlamento e nel Governo.
In questi ultimi mesi, in vista delle scadenze elettorali, il desiderio del centro si è manifestato in modo più acuto e frequente e, a contare tutti quelli che vi abitano, quel luogo virtuale risulta affollatissimo. Ultimo a farsi avanti è stato Clemente Mastella, con l’obiettivo di giocare l’ennesima sua partita, nell’ennesimo partito, per rifare, ha dichiarato, la Margherita 2.0. Che, detto così, si trasmette l’idea di una buona pizza piuttosto che quella di un partito, che all’inizio degli anni ‘90 ereditò parte del ceto democristiano e assistette inerte alla fine della prima Repubblica, consegnando il seguito a Berlusconi.
Da organizzatore dei pullman che dalla Campania portavano le “truppe cammellate” a Roma per applaudire Ciriaco De Mita nei congressi nazionali del partito a ministro e a sindaco di Benevento, Mastella ha costruito e dismesso molti veicoli con i quali, se non ha mai vinto una corsa importante, ha tuttavia tagliato parecchi traguardi e si è assicurato una invidiabile longevità politica. Se sbarcherà in Sicilia, troverà il sito virtuale del centro stracolmo di vecchie glorie che, detto senza ironia, mediamente hanno qualità migliori di molti esponenti della destra e degli anonimi che ancora popolano i Cinque stelle. Saranno bravi, ma mostrano di essere fuori dalla Storia a sognare o una resurrezione di ciò che, pur glorioso, è già da tempo finito, o una cosa nuova, impalpabile, per la quale sono in lizza cento generali con pochissimi soldati.
Sono tuttavia generali bravi, che hanno mostrato buone capacità manovriere e che, al di là dei proclami e delle velleità, sono rimasti sussidiari della destra, ottenendo, comunque, ricompense apprezzabili e la gestione di una discreta porzione del territorio del potere. Se poi alzano troppo l’asticella delle pretese e vogliono prendere il comando delle truppe di Meloni e di Salvini immaginando di vestirle con divise meno sgargianti e pacchiane, vengono richiamati e costretti a tornare nei ranghi.
La cronaca siciliana registra in questi giorni l’ultimo arrivo al centro, quello di Faraone, che, da esponente della sinistra post comunista, aspira ad essere alleato di Forza Italia, se non dalla stessa cooptato. Faraone annuncia di volere aprire “una officina delle idee” – originalissima proposta! -, dotandola degli attrezzi necessari per aggiustare la città di Palermo che, messa su appositi cavalletti, subirà una radicale revisione del motore con annesso cambio dell’olio. Al lavoro in officina il capogruppo di Italia Viva al Senato vuole solo persone “libere e coraggiose”. La selezione sarà di conseguenza severa. Tutti quei paurosi che cantano per darsi coraggio quando salgono le scale al buio e gli asserviti e sottomessi evitino di presentarsi. Ché non si tratta di rimettere in moto un vecchio catorcio, ma di fare di Palermo una rombante monoposto come quella della Red Bull che, qualche mese fa, girò per le strade della città per un ottimo spot pubblicitario.