Chissà se dopo aver accolto, attraverso la cabina di regia, il piano di razionamento dell’Amap, Renato Schifani chiederà mai scusa ad Alessandro Di Martino, amministratore unico della Municipalizzata, per aver chiesto la sua testa. Dal presidente della Regione ci si sarebbe aspettati soluzioni diverse (e provvedimenti consequenziali) rispetto alla riduzione – seppur “minima” – della pressione dell’acqua per preservare le riserve idriche di Palermo. Anche perché, non più tardi di dieci giorni fa, Schifani aveva sbuffato malamente di fronte alla proposta, sia nella sostanza che nella forma, pervenuta da Amap: “Siamo convinti che una maggiore collaborazione avrebbe potuto portare a soluzioni più efficaci e meno impattanti per la cittadinanza. Pertanto – diceva il governatore – chiediamo che Amap ritiri il provvedimento sottoponendolo preventivamente alla Cabina di regia”.
In realtà la Cabina di regia ha preso atto delle preoccupazioni di Amap e le ha dato ragione. Sconfessando lo stesso Schifani, che in questi dieci giorni – assieme al Capo della Protezione civile, Salvo Cocina – non ha saputo valutare proposte alternative e “meno impattanti”. In questa vicenda, oltre alla confusione di fondo, prevalgono le solite logiche schifaniane: ma chi è Amap per decidere al nostro posto? E perché nessuno mi ha consultato – manco fosse un ingegnere idraulico – prima di suggerire una soluzione, qualunque essa sia? Non era una questione di merito, ma di metodo. Ed è lo stesso metodo che manca al governo regionale nella gestione della crisi.
Restando valida la premessa – cioè l’aridità di Musumeci, nella corsa legislatura, sotto il profilo decisionale – questi mesi sono la conferma che anche il suo successore si abbandona facilmente alle tentazioni, senza considerare un piano o una strategia nel breve-medio termine. Si arranca. La soluzione di spedire una nave della Marina militare a Licata, per rifornire con 1200 metri cubi d’acqua un territorio “infestato” dall’emergenza, era stata annunciata il 5 luglio. Ma se n’erano perse le tracce, anche a fronte dei costi da sostenere. Lo stesso Prefetto di Agrigento, in un’intervista al Giornale di Sicilia, ha spiegato che sarebbe costata meno l’acqua minerale da distribuire in bottiglia. Poi, magicamente, il coup de theatre: la nave, partita dal porto di Augusta, è attraccata sul versante agrigentino nel pomeriggio di venerdì. “Il mio obiettivo – ha detto Schifani – non è solo arginare l’emergenza, ma risolvere definitivamente tutta una serie di problemi strutturali nel settore idrico siciliano che si trascinano da anni e che sono in parte causa dello stato in cui ci troviamo oggi”. Come, con una nave-cisterna a settimana?
Stando ai provvedimenti adottati, siamo ancora lontani da una soluzione. Prendete i dissalatori: sono tornati di moda ma fino a un certo punto. La decisione di “vincolare” la loro riattivazione all’Accordo di coesione con Roma – con tempi destinati a dilatarsi sia per il completamento dei progetti che per l’utilizzo di fondi comunitari – indica che non avremo una goccia d’acqua dissalata almeno fino al 2026. E nel frattempo che si fa? La Regione ha deciso di destinare 17 dei 20 milioni messi a disposizione da Roma, dopo la dichiarazione dello Stato d’emergenza, per trivellare nuovi pozzi o riattivare quelli in disuso. Anche in questo caso si tratta di una mossa tardiva, che speriamo non si riveli effimera. Lo dice anche Salvo Cocina, intercettato dall’edizione palermitana di Repubblica: “Sulla riattivazione dei pozzi forse qualcosa si sarebbe potuta programmare anche prima dell’emergenza”.
Non si è fatto, probabilmente, per una questione di soldi: “Palermo ha abbandonato i pozzi della piana – sottolinea Cocina – perché i costi dell’energia erano troppo elevati. Oggi lo scenario climatico appare irreversibile e la ricerca o la riattivazione delle fonti sotterranee è necessaria. È chiaro che anche i pozzi non sono la fonte principale di reperimento dell’acqua, per via dei costi che però, grazie alle nuove tecnologie sono sostenibili nella programmazione finanziaria”. Meno male. Anche in questo caso, però, emergono i deficit politici nella lettura di un’emergenza che tale non è. E’ ovvio che cominciare a trivellare nuovi pozzi significa distribuire un po’ di milioni ai comuni e ripulirsi la coscienza. Ma non è questo, probabilmente, il modo di affrontare una crisi di lunga data. La Sicilia, negli ultimi anni, ha visto abbassarsi progressivamente il livello degli invasi, le precipitazioni sono crollate al livello del 2002 (anno della grande siccità), mentre il caldo non ha mai concesso sconti. Perché, quindi, entrare in azione soltanto adesso, quando le attività economiche appaiono con l’acqua (si fa per dire) alla gola e i turisti fanno fioccare le disdette?
Un altro risultato estemporaneo, che Schifani reputa uno dei suoi tanti successi, è il riconoscimento “della condizione di forza maggiore e di circostanze eccezionali” dal primo luglio 2023 a maggio 2024, determinato dalla Conferenza Stato-Regioni, che consentirà alle imprese agricole e zootecniche che operano su tutto il territorio siciliano di usufruire di deroghe in alcuni ambiti della Politica agricola comune, che permetterebbero di non applicare determinati vincoli a pascoli e terreni, continuare a godere di aiuti, rinviare pagamenti, sanzioni e oneri. E’ lo stesso pannicello caldo garantito dal Ministero della Protezione civile, alcune settimane fa, con la dichiarazione dello Stato d’emergenza: venti milioni a fronte di interventi (richiesti) per i quali ne sarebbero serviti oltre 700. Eppure – come ammette la Regione medesima – per il comparto agricolo e zootecnico si stima una perdita della produzione nel 2024 che va da un minimo del 50% a un massimo del 75%.
Questi numeri, tragici, non fanno il paio con l’ultima trovata governativa. Vale a dire una campagna di comunicazione dal valore di circa mezzo milione per far credere ai turisti – ditelo agli americani che leggono il New York Times o a quelli che guardano la CNN – che la siccità non li tange. Non dà fastidio alle strutture alberghiere ed extra-alberghiere (tranne, forse, a chi prenderà una stanza ai piani alti di un hotel e noterà che la pressione è diminuita). L’acqua c’è e scorre a fiumi dalle docce. “È fondamentale – ha detto ieri Schifani – che il pubblico riceva informazioni precise e accurate, e che si eviti di alimentare campagne sensazionalistiche che mirano a creare inutili preoccupazioni. I turisti possono venire in Sicilia con assoluta tranquillità, senza timori di sorta per la disponibilità dell’acqua”. “Nessuno nega il dramma della siccità in Sicilia – aveva spiegato la ministra Santanché – ma inaridire anche il turismo quasi colpevolizzandolo come fa il New York Times aggiunge danno al danno”. Insomma, la colpa è del NYT che parla della siccità in Sicilia, non di chi governa (la Sicilia e il Paese) senza trovare uno straccio di soluzione. Anche se quella di Schifani, un’operazione infarcita di propaganda e luoghi comuni, potrebbe funzionare. Chissà.