Fra il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno, c’è una linea di confine – sottilissima – in cui sguazzano i ragionamenti di Gianfranco Micciché all’indomani delle elezioni Regionali. Che hanno consegnato una Forza Italia determinante nelle dinamiche del Sud – della Calabria in questo caso – e quasi nulla in Emilia Romagna, dove il partito di Berlusconi (al 2,5%) ha scavato ben oltre il limite dell’irrilevanza. Far coincidere le letture post-voto è operazione ardua, ma Miccichè trova comunque un modo: “Se in Emilia fossimo arrivati almeno al 5%, la nostra crescita sarebbe stata più evidente – esordisce il commissario regionale di FI e presidente dell’Ars –. Ma di fatto i nostri voti sono aumentati: in Calabria abbiamo preso più che alle Politiche e alle scorse Europee. La Santelli, che conosce meglio di chiunque altro le dinamiche del partito e di quel territorio, ha messo insieme un numero tale di liste da raggiungere il 30%. E’ come se fossero tutti voti di Forza Italia. E’ un dato confortante da cui bisogna ripartire”. Ma è anche un dato che non cancella le contraddizioni.
Qualche mese fa, con una provocazione che morì dalla sera alla mattina, lei aveva esternato l’esigenza di un partito del Sud. Forza Italia, in pratica, lo è diventato.
“Appunto, non si può far finta di nulla. Solo considerando i dati oggettivi, possiamo trovare le contromisure anche nel resto del Paese”.
Si spieghi.
“Una volta il partito si reggeva soltanto su Berlusconi. Oggi non è più così. Ma troppo spesso il Cav si trova a subire delle scelte che non sono sue. In questo modo rischiamo di perdere tutto”.
E’ una critica velata ai dirigenti del Nord?
“Guardi, io non ho voglia di attaccare nessuno. Sono tutti amici e condividiamo lo stesso percorso da venticinque anni. Ma c’è un motivo se quando si fanno le liste in Campania o in Sicilia si prende il 20%, come è accaduto alle ultime Europee, mentre altrove ci si ferma al 3%. Diciamo che alcune scelte appaiono molto strane a chi di politica ne capisce”.
Sta invitando Berlusconi a riprendere in mano le redini del partito?
“Assolutamente sì. La tragedia è che le scelte più importanti non passino da lui, ma gli vengano solo comunicate. Ma il dato delle ultime Regionali non deve avvilirci. Il contrario. C’è un aspetto da cui bisogna ripartire: cioè che Forza Italia non solo non è morta – mi rifiuto di pensarlo – ma ha aumentato i consensi”.
Come si innesca un trend positivo?
“Se diamo ai territori dirigenti più capaci, ripartiamo davvero. In Emilia – le faccio notare solo questo – l’ex coordinatore regionale è passato a Fratelli d’Italia e ha portato con sé quattro consiglieri che, tutti insieme, valgono 26 mila voti. Potevano essere nostri. Le cose sono due: o siamo diventati la Lega del Sud, e prendiamo voti solo nel Mezzogiorno (un’ipotesi a cui non credo); oppure prendiamo i voti solo laddove il partito è strutturato e funziona. Se il partito non esistesse, anche nelle regioni con bravi coordinatori mancherebbero i consensi”.
E’ un partito troppo sbilanciato verso il Nord per quello che esprime nelle urne?
“Più chiaro di così…”.
In Calabria, come in Sicilia, si è affermato un modello di governo di centrodestra e non di destra-destra, come è avvenuto di recente in altre regioni come l’Umbria.
“Ecco, qualcuno dovrebbe riflettere anche su questo”.
Però all’Ars è appena comparsa la Lega. Al netto di una ritrovata convergenza sui temi, vi hanno sfilato Nino Minardo, deputato alla Camera, e Orazio Ragusa, deputato di punta all’Assemblea. Come l’ha presa?
“Può sembrarle un paradosso, ma queste operazioni, nell’ambito di una gestione collettiva, possono farci solo bene. I rapporti sono migliorati. Nino Minardo resta un grande amico. Orazio Ragusa pure. Certo, non le nascondo che perderlo un po’ mi è dispiaciuto”.
Con l’ingresso del Carroccio sarà necessaria un’operazione di rimpasto. Condivide?
“E’ una cosa che francamente non m’interessa. Se il presidente Musumeci vorrà cominciare a lavorare a un rimpasto – è giusto che ci pensi – io sono pronto a incontrarlo. Ma non mi faccio prendere dall’ansia, perché le decisioni spettano a lui. Aspetto che mi faccia sapere, dopo di che ci attiveremo”.
La soppressione dell’articolo 1 dell’esercizio provvisorio, martedì scorso, ha un significato politico oppure va ridotto a un semplice inciampo?
“E’ stato gonfiato troppo dalla stampa. Si è trattato di un semplice inciampo. I deputati c’erano, la maggioranza c’era… Più che un incidente politico, è stato un incidente d’aula”.
Ha visto che all’Ars ci sarebbe un gruppetto di Cinque Stelle responsabili? Potrebbero soccorrere la vostra coalizione di governo quando necessario?
“Non ne ho notizia. Se dovessi dar conto a tutte le voci che riguardano il mio partito, a Sala d’Ercole saremmo in due e non in dieci… Se alcuni grillini dovessero fare valutazioni diverse, vedremo. Ma al momento non gli do alcun peso”
I Cinque Stelle – come conferma il voto di domenica in Calabria – sono ridotti ai minimi termini. Perché secondo lei?
“Dovrebbero valutare la resa di alcune operazioni politiche, a partire dal reddito di cittadinanza. Io sono uno che va al mercato a fare la spesa. Incontro tante persone, e sono molti di più coloro che l’hanno percepito come una presa in giro che non come una cosa realmente utile”.
E’ ancora presto per parlare di bipolarismo?
“Non è presto. Se avviene quello che oggi il Partito Democratico prospetta ai grillini – cioè di presentarsi insieme alle elezioni, che poi vuol dire “entrate e facciamo un Pd a Cinque Stelle” – saremmo tornati di colpo al bipolarismo. Chi ci perde è solo Renzi”.
Ma è lui che può far cadere il governo a Roma.
“E’ vero, ma non credo che a quel punto potrebbe rientrare nel Pd. Vede, Renzi ha fatto un’operazione che qualcuno, nel centrodestra e magari anche in Forza Italia, avrebbe dovuto anticipare. Non mettendosi con lui – è chiaro – ma contribuendo alla ricostruzione di un’area di centro. E’ un peccato che non si sia fatto”.
Il Consiglio dei Ministri ha impugnato la vostra legge sul taglio dei vitalizi. Questo potrebbe rimettere in discussione la norma a livello nazionale. Ci spera?
“Intanto chiariamo una cosa: l’impianto della legge non è stato toccato. L’impugnativa riguarda la durata dei cinque anni, su cui non escludo che possano anche aver ragione… Per assurdo, potremmo anche non appellarci alla Consulta. Ma credo sia corretto farlo perché in questo modo la Corte potrà mettere le mani su una storia confusa e molto triste, che ha permesso al populismo di dilagare. Non ce n’era motivo. Non è vero che questi vitalizi siano una materia così grossa e importante come si dice in giro”.