Si chiude il lungo regno di Orlando. Senza rimpianti

Il sindaco uscente di Palermo, Leoluca Orlando, ha perso la sua ultima battaglia: quella dell'antimafia chiodata

“Dove sono le mie legioni?”. Per trentotto anni ha dominato la Palermo “regia e conventuale” con l’alterigia dell’uomo mandato dalla provvidenza per redimerla da tutti i peccati, per liberarla dai boss e dai picciotti di Cosa nostra, per purificare ogni vicolo del centro storico e ogni angolo di periferia. Ma ieri, quando ha lasciato Palazzo delle Aquile per fare posto al nuovo sindaco della città, sembrava stordito e smarrito come l’imperatore Augusto dopo la disfatta di Publio Quintilio Varo nella foresta di Teutoburgo: “Varo, ridammi le mie legioni”.

Per trentotto anni ha governato nel nome dell’antimafia e ha incipriato il suo potere con slogan, beceri e ribaldi: “Il sospetto è l’anticamera della verità”, predicava in giro per le chiese dei gesuiti e per le aule dei tribunali. E se qualcuno avanzava la malsana pretesa di contrastare la sua ascesa, lui – Leoluca Orlando – lo scriveva d’ufficio nel libro nero dei favoreggiatori della mafia e lo sputtanava pubblicamente. Sperimentò questo gioco perfino con Giovanni Falcone, il giudice saltato in aria nell’attentato di Capaci, al quale lanciò la canagliesca accusa di “tenere le prove nascoste nei cassetti”. E lo replicò con Leonardo Sciascia che aveva avuto l’ardire di definirlo, sul Corriere della Sera, “un professionista dell’antimafia”. Apriti cielo: irritato e indispettito, puntò il dito inquisitore contro il mite autore del “Giorno della civetta” e lo marchiò a sangue come “uomo indegno di vivere in una società civile”.

Non conosceva ostacoli, negli anni Ottanta, Leoluca Orlando. Col ciuffo sudaticcio appiccicato sulla fronte, marciava come un Che Guevara alla conquista del comune di Palermo. La sua guerriglia mirava a disarcionare il potere di Salvo Lima, padrino delle tessere andreottiane in una città dove regnavano altri padrini: da Vito Ciancimino a Stefano Bontade, detto il “Principino”, da Tano Badalamenti a Pippo Calò, boss di Porta Nuova. Gli faceva da spalla Ennio Pintacuda, un prete fanatico cresciuto sui precetti di sant’Ignazio di Loyola; e gli faceva da corona un comitato di avanguardisti straordinariamente bravi nella costruzione di un populismo giocato sui simboli e sull’immagine; un populismo che tocca la punta più alta della teatralità il 15 aprile del 1989 quando Leoluca, già in conflitto aperto con la Dc, che era stato il suo partito, entra nella casa municipale con il giubbotto antiproiettile. Si mostrava al mondo come l’eroe, intrepido e inarrestabile, sul cui capo pendevano le più oscure minacce mafiose. Quale Arnaldo Forlani avrebbe avuto mai il coraggio di contrastare le sue scelte, le sue avventatezze, la sua innaturale – per quel tempo – alleanza con il Partito comunista? Ovviamente nessuno. E per Leoluca Orlando, detto “il professore” per via dei suoi studi all’università di Heidelberg, cominciava così un regno che si sarebbe esteso per cinque mandati: un’eternità. Con elezioni che hanno sfiorato quasi sempre il plebiscito.

Ieri però, dopo avere presidiato il palcoscenico della politica per un così lungo tempo, ha dovuto comunque obbedire alla legge che non consente più di due mandati consecutivi e ha ceduto lo scettro del comando a Roberto Lagalla, eletto con i voti del centrodestra. Le sue legioni, come quelle di Varo, non c’erano più: il candidato del centrosinistra, Franco Miceli, è stato travolto dalle orde barbariche di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni, di Totò Cuffaro, di Marcello Dell’Utri e di Silvio Berlusconi. Ma Palermo non ha versato molte lacrime. Certo, c’è ancora un coro ristretto, ristrettissimo, che non si rassegna e si dispera, che denuncia il “ritorno della mafia” e le mani del boss sulla città. Ma i picciotti di Ballarò e dello Sperone, dello Zen e della Vucciria – i quartieri che si spellavano le mani per ‘u sinnac’ollando – ieri erano in visibilio per il ritorno della squadra del Palermo in serie B, dopo tre anni di una mesta clausura in serie C.

Quasi nessuno ha invocato il nome di Leoluca Orlando. Nemmeno quelli che, negli anni del furore e degli ardori, davano addosso a Sciascia e stendevano sui balconi le lenzuola bianche per mostrare il loro sdegno e il loro impegno contro i crimini mafiosi; nemmeno quelli che pure sono stati affascinati, se non addirittura abbagliati dal suo potere. Guardate che cosa ha scritto Roberto Alajmo, scrittore e drammaturgo di grande sensibilità, che è stato anche direttore del Teatro Biondo: “Ha acceso la luce e l’ha spenta. Al buio eravamo e al buio siamo tornati. Anzi, peggio: ci tocca pure il rimpianto”.

Non poteva esserci epigrafe più sferzante, più malinconica, più irridente. E più vera. Il Comune è sull’orlo del default. Lì dove doveva esserci pulizia e trasparenza ci sono i magistrati che cercano tra le carte le prove di intrighi e corruzione. La città è appestata da cumuli di immondizia. Al cimitero dei Rotoli, il più grande e il più importante della città, non si riescono a seppellire i morti: oltre mille bare sono accatastate in un capannone, senza pietà. La città è diventata un immenso Ucciardone, dal quale non si esce ma si evade: la circonvallazione è bloccata a ovest da un barcollante Ponte Corleone e a est da un cantiere che dovrebbe regimentare le acque di Passo di Rigano. Lavori senza fine: come quelli per il passante ferroviario, che bloccano ancora Piazza Politeama, o quelli dell’aeroporto di Punta Raisi che offrono ai passeggeri l’immagine deprimente dei tetti sventrati e dei fili scoperti.

E’ il deserto, un rosario di saracinesche abbassate. “Viva Orlando e Santa Rosalia”, gridavano trent’anni fa i questuanti e gli intellettuali esaltati dal solo pensiero di avere a Palazzo delle Aquile il ragazzo col ciuffo che agitava il drappo del cambiamento. Lo chiamavano “il leone di sicilia”. Oggi gli unici leoni dei quali si può fantasticare sono quelli intravisti in una notte di “soave delirio” da Bruno Barrili, poeta e librettista del primo Novecento, forse suggestionato dalla dicitura frontale del tram che dal fiume Oreto arrivava fino a piazza Leoni, alle porte della Real Tenuta della Favorita. Erano belve dal “crine fosforescente” che “si svegliavano al crepitio delle Pleiadi”. Fatte apposta per una città immaginaria, calda e arabeggiante. Per una città del sole, senza monnezza, senza mafia, senza inganni, senza Orlando.

(Questo è un articolo pubblicato stamattina sul Foglio)

Giuseppe Sottile :

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