Sexy in the web: il porno e gli affari

La rivolta è partita il mese scorso, quando Tumblr (420 milioni di utenti attivi al mese) ha deciso di eliminare i contenuti porno. Molti utenti della piattaforma di microblogging si sono ribellati, uscendo allo scoperto su siti specializzati e sui giornali. Eric Leue, direttore esecutivo della Free Speech Coalition, associazione commerciale non-profit sulla pornografia negli Stati Uniti, ha dato una chiave di lettura discriminatoria del provvedimento: “Tanti di quelli che fanno parte delle comunità eterosessuali ed eteronormative non capiscono la portata del divieto su Tumblr perché la loro vita e la loro cultura sono rappresentate ovunque. Per chi invece appartiene alle comunità queer, di nicchia o feticiste, Tumblr era uno dei pochi spazi accessibili dove costruire comunità e condividere contenuti”. A dar forza a questa teoria, molte lettere di protesta a rubriche che si occupano di sesso e costume, come quella di Dan Savage sul settimanale di Seattle “The Stranger”, il cui succo è fondamentalmente questo: se è vero che su internet continuano a esserci tonnellate di porno, come chiunque può notare, questa stretta sui contenuti espliciti disturba le persone queer vulnerabili. “E finché i programmi di educazione sessuale non copriranno il sesso queer o alternativo”, scrive Savage “i giovani Lgbtq e dai gusti sessuali alternativi continueranno a procurarsi l’educazione sessuale su internet: e più difficile diventerà l’accesso ai contenuti espliciti, specie se non commerciali, più difficile sarà per i giovani queer trovare non solo il porno che fa per loro, ma anche le informazioni necessarie per proteggersi”.

La storia del porno su internet è complicata. La racconta Kieren McCarthy nel libro “Sex.com” in cui si ricostruisce la battaglia legale (e quasi fisica) intorno a quelle due paroline, le più contestate e redditizie del web. L’idea la ebbe nel 1994 Gary Kremen, un imprenditore che con pochi dollari si assicurò il dominio sex.com, e che poco tempo dopo se lo si vide soffiare da un tale Stephen M. Cohen. Non si sa bene come avvenne la sottrazione, fatto sta che il misfatto innescò cinque anni di guerra in tribunale. Secondo la McCarthy, Cohen avrebbe approfittato di un bug tecnico per impossessarsi del sito, mentre gli avvocati di Kremen ipotizzarono che ci fosse dietro una manina all’interno della compagnia di hosting del dominio, la Network Solutions. Scrive la giornalista: “Si sospetta Cohen che abbia avuto una relazione sessuale con qualcuno di Network Solutions, e abbia raggirato qualcuno per cambiare l’indirizzo mail del sito e sostituirlo con il suo, e da lì cambiò tutte le altre informazioni”. Insomma un affare di sesso dietro l’affare del sesso.

Dopo una serie di passaggi di mano, contestazioni legali, aste annullate e fallimenti, il dominio sex.com è stato venduto nel 2010 per 13 milioni di euro alla Clover Holdings LTD, una società con sede nello stato di Saint Vincent e Grenadine noto per i suoi servizi bancari offshore.

Quando si dice porno si pensa a PornHub, un sito che fa qualcosa come 92 milioni di contatti al giorno (più o meno come se si connettessero tutti gli abitanti di Canada, Australia e Polonia), trasferisce 147 gigabyte al secondo, carica 12 nuovi video al minuto. Sul sito i protagonisti del 2018 sono stati Stormy Daniels, la pornostar accusatrice di Donald Trump, e il videogioco Fortnite. Nello scoppiettante dipanarsi dei numeri – le statistiche ufficiali di PornHub sono ormai un classico per praticare una nuova antropologia al di sotto della cintola – ci si imbatte nei 4,79 milioni di nuovi video caricati nell’ultimo anno: per guardarli tutti si stima che servirebbe una maratona di passione lunga circa 115 anni, senza pause ovviamente. Insomma ci sarebbe dovuti mettere comodi davanti allo schermo nel 1903, quando Marie e Pierre Curie furono insigniti del premio Nobel per la Fisica.

Autoerotismo ovvero il trionfo dell’irregolarità. Guardando il calendario, i dati degli accessi dicono che il giorno nero di Pornhub è il 31 dicembre, quando il traffico cala del 44 per cento (del 60 in Italia) tra le 18 e la mezzanotte. Anche Halloween provoca un calo, del 4 per cento su scala globale ma del 21 negli Stati Uniti. In Italia è sacro il Ferragosto: meno 22 punti percentuali, sarà il caldo.  Ma ci sono anche alcuni eventi di cronaca che rosicchiano popolarità al sito. Ad esempio le cerimonie di Oscar, Golden Globe, Emmy e Grammy hanno fatto diminuire il traffico del 4-6 per cento. Ancora di più hanno tolto la presentazione dei nuovi iPhone (meno 11 per cento) e il matrimonio tra il Principe Harry e Meghan Markle (meno 10 per cento).

In Italia solo il Festival di Sanremo è arrivato a tanto: 8 per cento in meno durante la serata del 6 febbraio. La bestia nera di Pornhub però è lo sport. In occasione dei grandi appuntamenti il traffico crolla. Dal Super Bowl, diminuzione del 26 per cento negli Stati Uniti e del 40 nella città vincitrice (Filadelfia), alla finale dei mondiali di calcio, meno 11 per cento.

Se i principali siti porno hanno nomi noti, meno diffuso è quello del provider attorno al quale ruota questa gigantesca ruota miliardaria: MindGeek, una società lussemburghese con sede a Montreal, in Canada, proprietaria dei più importanti siti pornografici del mondo: oltre a PornHub e YouPorn, Tube8, XTube, RedTube, ExtremeTube and SpankWire. Si tratta di un impero con regole ferree custodite in una sorta di segretezza teatrale. Così ne ha scritto David Auerbach su “Slate”: “MindGeek ha conquistato il monopolio del porno, costringendo i membri dell’industria alla posizione paradossale di lavorare per la stessa società che trae profitto dalla pirateria del loro lavoro. MindGeek è talmente potente che le persone che lavorano nel settore della pornografia online hanno paura di parlarne, per timore di finire nella sua lista nera. E il predominio di MindGeek dovrebbe essere preso come esempio dei pericoli dell’accorpamento di produzione e distribuzione nelle mani di un singolo proprietario”.

Nello specifico, MindGeek distribuisce sui suoi aggregatori, chiamati “tube sites” perché imitano il formato YouTube, enormi quantità di pornografia gratuita finanziata con la pubblicità. Questi siti, che siano di proprietà di MindGeek o meno, notoriamente ospitano un sacco di contenuti piratati. “Nonostante ogni sito di video debba rispettare le richieste di rimozione di contenuti, in base al Digital Millennium Copyright Act (DMCA), la maggior parte dei produttori di porno non ha le risorse degli studi cinematografici o delle etichette discografiche per monitorare la pirateria” scrive Auerbach. Perfino i produttori di contenuti di proprietà di MindGeek hanno problemi a far rimuovere i propri video dai loro stessi siti. Di conseguenza la produzione di film porno è a picco da anni, ma il porno online non risente affatto della crisi. Il modello che ne scaturisce è un sistema vampiresco in cui, spiega Auerbach, “i produttori di MindGeek fanno film porno soprattutto perché siano caricati sui siti gratuiti di video di MindGeek, con minori ricavi per i produttori ma con maggiori ricavi pubblicitari per MindGeek che non vanno a nessuno dei soggetti coinvolti nella produzione”. La situazione la fotografa Siri, pornostar di Minneapolis su “Quora”: “È come se Walmart facesse fallire i negozi a conduzione familiare e poi entrasse nei negozi a conduzione familiare e rubasse letteralmente i loro prodotti per rivenderli da Walmart».

Istintivamente, con le dovute eccezioni, l’occhio in cerca di un paragone si posa su altri distributori di contenuti come Netflix e Amazon. Ma se questi hanno orientato il loro business verso la produzione, investendo in nuovi prodotti originali e coraggiosi, MindGeek rappresenta un esempio pressochè unico in cui al distributore non interessa incentivare contenuti che garantiscano ricavi adeguati a chi li ha prodotti, finché questi in qualche modo fanno fare soldi. Unica missione: spremere il limone sino alla scorza fregandosene dell’albero. La lezione che ne consegue vale per ogni modello economico basato sul monopolio: l’accentramento del combinato produzione-distribuzione nelle mani di una sola azienda può determinare la scomparsa di un’intera categoria produttiva.

In questa perenne invasione di campo del futuro nelle nostre vite, che molti chiamano cambiamento e altri stravolgimento, la tecnologia ha un ruolo di primo piano. Nel libro “The Erotic Engine”, il giornalista scientifico canadese Patchen Barss ricostruisce la storia degli effetti della pornografia sulla comunicazione di massa e si sbilancia: “Ci sono buone possibilità che senza il porno, il videoregistratore non sarebbe mai decollato”. Effettivamente prima che il videoregistratore entrasse nelle case, per guardare un film hard si doveva andare di nascosto in sale cinematografiche non proprio accoglienti e magari malfrequentate. “La possibilità di guardarlo nell’intimità di casa contribuì a creare un primo mercato per le apparecchiature di home-video”, spiega Barss. “Alcuni dei fattori che favorirono l’affermazione del videoregistratore contribuirono anche al diffondersi della tv via cavo che permetteva di trasmettere contenuti più audaci, e questo era uno dei motivi che spingevano le persone a pagare per avere i canali aggiuntivi, nonostante gli altri fossero gratuiti”.

Da un fenomeno di costume all’altro. Una decina di anni fa si diffuse un’antica leggenda virale secondo cui se una cosa esiste o può essere immaginata, allora ne esiste una versione porno su internet. Questa storiella prende il nome di “Regola 34” e origina da una vignetta del 2003 di Peter Morley-Souter: “Rule #34: There is porn of it. No exceptions”.

Se esiste, allora c’è la sua versione porno. Senza eccezioni. Nel suo periodo d’oro, intorno al 2009, la “Regola 34” dimostrava che qualunque cosa poteva dare un aggancio alla sua versione hard: dal Tetris agli animali in estinzione, dai robot agli strumenti musicali agli alieni. Poi il giochino cominciò a perdere d’appeal perché effettivamente digitando sui motori di ricerca apparivano sempre meno corrispondenze. Cosa era successo? Alla fine degli anni Duemila l’industria pornografica online iniziava a diventare più solida, spostandosi da produttori e distributori singoli verso siti-aggregatori con la conseguente virata verso il monopolio. Pochissime aziende, via via in posizione sempre più dominante, impararono a sfruttare le grandi quantità di contenuti e dati sul traffico degli utenti a loro disposizione, in modo da orientare il mercato: in pratica decisero loro quali generi di porno far diventare e mantenere popolari. La maggior parte di questi siti usano tag, cioè parole chiave che descrivono l’oggetto o l’azione rendendone possibile la classificazione: sono anche i tag che alla fine contribuiscono a determinare il modo in cui parliamo di sesso online.

Secondo una teoria però smentita ufficialmente dalla stessa azienda, Pornhub personalizza i contenuti riservati agli utenti grazie a un algoritmo che tende a nascondere i video più curiosi o strani. Qualche anno fa alcuni ricercatori francesi hanno analizzati i metadati che descrivono i contenuti di alcuni siti pornografici e hanno scoperto che, nonostante la grande molte di materiale teoricamente disponibile, il 5 per cento dei tag disponibili comprende il 90 per cento dei video caricati nei due siti.

Ecco spiegato perché la “Regola 34” non funziona più. Perché la varietà è diminuita vertiginosamente per dare spazio al sesso tradizionale che ha un vantaggio irresistibile: è più vendibile. Meno fantasie, più certezze: il clic non vuole pensieri.

Gery Palazzotto per Il Foglio :

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