La chiave di volta è Cosa Nostra. L’ombelico della questione che ha portato al sequestro di 150 milioni per Mario Ciancio Sanfilippo, imprenditore ed editore del quotidiano “La Sicilia”, meglio conosciuto come “re” di Catania. Sono giorni in cui alle saette della Procura, capitanata da Carmelo Zuccaro e su disposizione dalla direzione distrettuale antimafia, prova a ribattere il collegio di difesa dell’accusato. Dopo la lunga conferenza stampa in cui la Procura ha evidenziato le colpe di Ciancio – prima fra tutte la sua pericolosità sociale “fondata sulla verifica del fatto che vi è stato un apporto costante e di rilievo nei confronti di Cosa nostra” – l’avvocato Carmelo Peluso ha capovolto i termini del discorso. “Ma vi pare che uno come Ciancio, che ha sempre vissuto a Catania e non è mai stato coinvolto in fatti eclatanti – questa è la perifrasi delle sue parole – possa finire accusato con un decreto di confisca?”.
“Un decreto – ha spiegato il legale – che ha raccolto un mosaico variegato di sospetti e li ha fatti diventare il presupposto di un giudizio di pericolosità sociale. Quella persona che per tanti anni è stata al centro della società catanese, oggi è additata come persona che addirittura avrebbe riciclato il denaro della mafia. Editore di un giornale asservito alla mafia, i cui giornalisti sarebbero stati privi della libertà di pensiero”. Peluso vorrebbe evidenziare un paradosso, anche se le accuse della Dda sono precise e circostanziate: “Il Tribunale letti i documenti e ascoltate le argomentazioni del pm e della difesa, ha ritenuto che Mario Ciancio Sanfilippo sin dall’avvio della sua attività, nei primi anni ’70, e fino al 2013, abbia agito, imprenditorialmente, nell’interesse proprio e nell’interesse di Cosa Nostra e che in ragione di ciò il suo patrimonio si sia implementato illecitamente, giovandosi anche di finanziamenti occulti e che anche il predetto sodalizio mafioso si sia rafforzato grazie ai fortunati investimenti realizzati per il tramite di Ciancio”.
L’accusa ha evidenziato alcuni passaggi dell’attività imprenditoriale di Ciancio, che poco hanno a che fare col principio di trasparenza. Come quella volta che il boss Ercolano venne “accolto” nella redazione de “La Sicilia” per lamentarsi del trattamento, o meglio della definizione di “noto boss mafioso” che in un articolo gli aveva cucito addosso il giornalista Concetto Mannisi: “Quello che ci colpì – hanno detto ieri i magistrati – era l’apparente normalità del fatto che un elemento noto e riconosciuto come esponente di Cosa Nostra catanese avesse accesso alla sede della Sicilia e fosse portato davanti al direttore il quale, lungi dal far fronte contro quello che doveva essere un nemico rispetto all’opera dei suoi uomini, chiamava davanti a sé il giornalista per chiedergli di dare le proprie spiegazioni”.
Sulla visita di Ercolano e il mancato necrologio del commissario Montana, la difesa punta sul fatto che nel corso del processo in cui è coinvolto Ciancio “lo stesso pm, nel corso dell’udienza preliminare, ha affermato di non volere più sostenere che tali episodi abbiano apportato un contributo causale al rafforzamento di Cosa Nostra”. Sempre riguardo alla gestione del quotidiano, la Procura sostiene che Ciancio “piegava alla sua volontà la linea editoriale, non solo scegliendo persone di sua fiducia e allontanando giornalisti non graditi, ma anche dettando precise direttive laddove aveva specifici interessi imprenditoriali”. E la mafia sarebbe stata “interessata” a tale linea.
Nell’arco della conferenza stampa, Zuccaro ha illustrato alcuni investimenti che legherebbero Ciancio agli ambienti mafiosi, ad esempio la realizzazione di alcuni parchi commerciali, come Le Porte di Catania e Sicily Outlet. Ma l’avvocato difensore del “re” ricorda come nessuna di esse, a parte Sicily Outlet, sia stata effettivamente realizzata. “Ciancio – afferma inoltre Peluso -. discende da una famiglia prestigiosa, molto benestante, diventata con il passare dei lustri e delle generazioni sempre più facoltosa grazie a investimenti intelligenti, coraggiosi e fortunati. Ma innanzi tutto una famiglia nata ricca”. Nel 2015 – ha ricordato infine l’avvocato – il Gup emise una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del suo assistito, poi annullata dalla Corte di Cassazione. Il segnale di una storia controversa, in cui fra accusa e difesa è in atto (e rimarrà in atto) una tensione spasmodica.