Le parole sono pietre. E aggiungo io (Levi possa perdonarmi) pietre “rotolanti”. Nel senso che trattasi di materia viva, mai quieta, capace di generosità – spianano strade, le parole, arrangiano ponti tra me e te, noi e loro – e di rivalsa contro chi ne fa “mala minnitta”. Dica la sua chi la vendetta di una parola nata male non l’abbia sperimentata a proprio danno. Taccia chi è fieramente convinto che una parola valga ormai un’altra, così come – secondo alcuni – “uno vale uno”.
Una parola malamente sbozzata, fraintesa, provoca cataclismi. Piccoli, talvolta. E spesso latori di paradosso. Come nel mio caso, quando, un’impiegata del Comune, nel rinnovarmi la carta d’identità, mi chiese: “Professione?”. Io, incolpevole, risposi: “Scrittore”. Ma lei capi tutt’altro. Ora mi ritrovo un documento che dice: “Pittore”. E chissà che non sia un segno del destino. Potrei darmi all’ “imbianchinaggio”, con l’aria che tira. Meno agli affreschi, ché di questi tempi, così si dice, con l’arte non si mangia.
Calamità, dunque, ingenera una parola sfuggita. È il caso del latitante Pietro Matranga, palermitano a Milano, il quale, esibendo un documento falso, sicuro del fatto proprio, si ritrova fottuto da un dettaglio. Alla voce “stato civile”, sulla carta di identità c’è scritto: “Nubile”. Scattano le manette per il malcapitato celibe; una parola di sei lettere “non” vale l’altra.
Le parole. Sono un grimaldello per la liberta, per il prestigio e per il potere, oppure una chiusura a doppia mandata. Un sindaco (sindaca, pardon) della capitale che mi sbaglia un verbo ausiliare davanti a migliaia di persone, in diretta urbi et orbi, non sbatte la porta e basta: fa tuonare gli stipiti. Ma chi ci avrà fatto caso? Uno vale uno, già. Ed è la risposta a tutto. Misura per misura, dente per dente, minchiata per minchiata.