Apparentemente è un grande risultato per tutti. Il Pd, con le primarie di domenica, ha riportato entusiasmo tra elettori e simpatizzanti (persino) siciliani. Il momento della conta superato a pieni voti. Sebbene fosse impensabile ambire alle 140 mila persone che decretarono, non più tardi di due anni fa, il successo di Matteo Renzi su Orlando ed Emiliano, nei gazebo allestiti nell’Isola (415 rispetto ai 450 del 2017) si sono recati in 80 mila, frantumando quella soglia “Rosseau” (per citare i 5 Stelle che sul web hanno scagionato Salvini dal processo Diciotti), che tanto premeva al segretario regionale Davide Faraone.
Anche se, come per le elezioni Politiche, persino il congresso nazionale diventa occasione per un voto d’opinione più che una reale testimonianza d’affetto da parte del territorio alle politiche promosse da un partito che, proprio sul territorio, ha passato l’ultimo anno a scannarsi. Ne è riprova l’annullamento del congresso regionale, saltato a causa della guerra intestina che ha visto il ritiro, a pochi metri dal traguardo, di Teresa Piccione, a questo giro candidata in una delle liste di Zingaretti per l’assemblea nazionale.
Piccione vs Faraone è un dualismo che si è riproposto in altre salse: non tanto in Zingaretti vs Martina (o Giachetti) – questa battaglia era già decisa – quanto in Zingaretti vs Faraone, che di questo partito è diventato segretario regionale senza passare, suo malgrado, da una proclamazione “reale”. Non l’ha votato nessuno perché non hanno fatto in tempo a montare i seggi che la Piccione si era già ritirata. E se la legittimazione del senatore è venuta meno, le colpe non possono essere soltanto sue, ma anche di chi l’ha permesso ritirandosi.
La tornata del 3 marzo ha fatto riemergere vecchie ruggini, per usare un eufemismo. E la lotta esasperata, tanto da dilaniare il partito, fra l’ala di sinistra pura e dura – quella che fa riferimento a vecchi leoni come Cracolici e Crisafulli – rispetto a quella più morbida, inclusiva a destra, e “laica” (per usare una definizione dello stesso segretario regionale) vicina a Faraone, e di conseguenza a Renzi. Che si è smembrata nel sostegno a Martina e Giachetti. Ma che poi, alla fine della giostra, dovrà rimpattarsi se tiene al suo leader, ora che i “renziani” siffatti non esistono più.
Faraone resta in campo, ma in molti l’aspettano sulla riva del fiume come si fa con i cadaveri. Il tentativo di una tregua siciliana, che Faraone aveva voluto offrire – senza mai risparmiare frecciate a “notabili” e “padroni delle tessere” – all’ala dissidente del partito, consegnandogli la carta della presidenza, è naufragata di fronte alle intenzioni bellicose di Cracolici ad esempio, che già alla vigilia del voto nazionale su Zingaretti aveva avvertito i cugini sovversivi: “Io mi auguro che si rimetta ordine dentro il Pd”. Tra i più ferrei sostenitori di questa linea c’è anche Mirello Crisafulli, l’ex senatore che nei giorni di trattativa per il congresso regionale aveva tirato fuori dal cilindro il nome di Sammartino pur di liberarsi di Faraone. “Se Zingaretti vince, bisogna mettere mano al partito in Sicilia. Non può essere diretto da chi non è stato votato da nessuno”. E persino Zingaretti, durante le sue sparute presenze isolane per la campagna, non aveva fatto mistero di rinnegare il modus operandi della classe politica locale, colpevole di aver creato un vulnus, un pericoloso precedente: “In un modo o nell’altro bisognerà tornare ad una riapertura di un dibattito e ristabilire i processi democratici di selezione della classe politica”.
Ecco, il punto è questo. Che succederà a Faraone ora che Zingaretti è stato eletto segretario nazionale e i suoi accoliti sono pronti a imbracciare il fucile? Certamente, Faraone non potrà far finta che nulla è accaduto. E non potrà certo zittire i rivali, tanto meno Zingaretti, parlando di un “paparino romano” che “sconosce il Sud, la Sicilia, che magari si è fatto qui solo una vacanza, che viene in astronave, ci fa la lezioncina e poi torna nella sua comoda poltrona romana”. Come disse a chiare lettere qualche settimana fa per reagire agli attacchi del governatore del Lazio. Ora bisognerà crearsi una corazza e resistere al tentativo di spodestarlo. Prendete Crisafulli, che nella sua Enna ha regalato il 70% dei consensi a Zingaretti: “Faraone e i suoi amici devono prendere atto di quello che è successo e sgombrare il campo immediatamente per aprire una nuova fase nel partito. La sua esperienza da segretario è finita”. O la Piccione: “Credo che il risultato certifichi chiaramente che anche in Sicilia una stagione si è chiusa e che bisogna voltare pagina. Chi non ha mai affrontato il vaglio degli iscritti e degli elettori deve prenderne atto”. Cracolici c’è andato più cauto, ma non troppo: “Adesso si deve aprire una pagina nuova per il Pd anche in Sicilia, per un rinnovamento vero e non caricaturale: c’è bisogno di serietà, coerenza, rigore, competenza. Dobbiamo liberarci dai bizantinismi che hanno caratterizzato negli ultimi tempi il Pd regionale, per riconquistare la fiducia della gente e rimediare ai danni prodotti da certi “avventurieri del trasformismo””.
Gli avventurieri, il Nazareno, il Pd come qualcosa di diverso dal Pd. La lunga iconografia pensata da Cracolici in questi mesi la conosciamo a menadito. La conosce Faraone che in questi mesi da segretario (si è insediato alla vigilia di Natale) ha riportato il partito in piazza e nei cantieri bloccati delle infrastrutture, preferendo un silenzio assordante alle repliche piccate. Ma Faraone deve – paradossalmente – ricostruire attorno a sé il consenso. O quella corazza di cui sopra, che in questa campagna nazionale si è liquefatta dato alcuni dei suoi sostenitori, vedi il ragusano Nello Dipasquale, hanno scelto di appoggiare Zingaretti, il “paparino romano”, anziché Martina. Dipasquale è uno dei tanti che proverà a spendersi per un riequilibrio delle parti, per una sintesi che “il popolo del Pd ci chiede. Io ho fatto votare Zingaretti, che a Ragusa ha ottenuto quasi il 90%, primo comune fra quelli capoluogo, perché pensavo fosse il candidato migliore. Ma non l’ho fatto né in quota Franceschini né in quota Orlando, bensì autonomamente Poi, è vero, ho un rapporto personale e politico con Davide Faraone e lo ritengo un patrimonio per la Sicilia”.
E qui la situazione si complica. Perché è nei confronti di Faraone che gli zingarettiani della prima ora tenteranno l’assalto: “Ci sono stati errori e contrapposizioni, ma oggi la cosa importante non è presentare i conti di chi vince e di chi perde, ma trovare le sintesi – spiega Dipasquale -. A livello nazionale, dove Zingaretti parlerà con Renzi, Martina e Giachetti, ma anche a livello regionale. Sono sicuro che la classe dirigente siciliana riuscirà a trovare una sintesi sulla base di quello che è l’amore per il partito, di fronte alla grande scommessa a cui ci chiamano gli elettori: ossia utilizzare il voto non per andare contro qualcuno, ma per darci una speranza contro chi ci governa. Ritengo che Faraone rappresenti il futuro del Pd in Sicilia. Non starò accanto a chi, mentre in Italia si costruisce la pace, vuol far diventare la Sicilia un teatro di battaglia e di guerra”.
I buoni propositi dell’ex sindaco di Ragusa cozzano con gli interventi che arrivano da altre parti. Franco Ribaudo, sindaco di Marineo ed ex deputato nazionale, ha fatto parte della commissione provinciale di Palermo per il congresso. E ora che il suo Nicola ha trionfato, tira fuori gli artigli: “La campana ha suonato. Faraone e i suoi traggano le conseguenze di una sconfitta che riguarda senz’altro la linea politica, ma anche metodi usati e scelte arroganti fatte in questi ultimi mesi e sino l’altro giorno, con la nomina del segretario provinciale. Se si vuole ricostruire l’unità del partito, si dimettano – immediatamente! – per ristabilire i processi democratici di rappresentanza in Sicilia. Lo facciano con atto di responsabilità, prima di essere azzerati d’ufficio”.
Altro spunto di riflessione. Azzerare d’ufficio la segreteria regionale del Partito Democratico, una prospettiva difficilmente realizzabile, non avrebbe come risultato logico quello di sanarlo. Ma anzi di scuoterlo, e renderlo impraticabile. Zingaretti, il leader di una comunità che mira alla ricostruzione, se ne guarderebbe bene. Forse, come dice l’agrigentino Giovanni Panepinto, zingarettiano doc, basterebbe solo che “la striscia di Gaza palermitana sia dia una tregua”. Restano i tanti interrogativi che solo le prossime settimane potranno sciogliere. Intanto ci si gode la festa dei numeri e della democrazia. Ci si dà qualche pacca sulle spalle (come i complimenti di Faraone a Zingaretti) e si elogia lo spirito dei militanti, nonostante le recenti assurdità. E’ Carnevale e una maschera non guasta.