Ci sono due tipi – un lui e una lei di giovane baldanza – che prendono l’aperitivo seduti al tavolino di un bar, all’aperto, su una piazza, una delle tante belle piazze della nostra bell’Italia amate sponde, forse troppo colorata ma poco importa ché sempre una piazza è. L’aperitivo, massima affermazione (pare) di un vitalismo blandamente alcolico che dovrebbe ripagarci di una giornata di lavoro stressante, di caffè alla macchinetta, di contrasti col capo in ufficio. Atmosfera garrula, quella della piazza, forse un po’ «drogata», com’è caricata a estrogeni, d’altronde, tutta la pubblicità, che promette sempre qualcosa che c’è – che hai a portata di mano, che puoi cogliere solo a volerlo, che basta un minimo di desiderio – ma sempre con un sovrappiù di quel che è. Eppure quella piazza, quei colori, quell’aperitivo, quella fin troppo gioviale condivisione collettiva di un passeggero benessere, ci sembrano realtà. E ci sembra strano che una pubblicità possa darci la sensazione del reale, possa farci credere per un momento che quella sia la vita vera, quella stessa pubblicità che fino a qualche giorno fa sapevamo benissimo ci menasse per il naso nella rappresentazione di un quotidiano immaginario, mettendo in scena, allestendo il set di una realtà di mille specchi per mille brame, di mille sorrisi al posto di uno soltanto, con colori pastello al posto del bianco o, al massimo, dell’ecrù, col volume sempre a palla, una realtà distonica proprio perché forzatamente diversa da quella della luminescenza digitale della sveglia alle sei del mattino sul telefonino.
Ci sembra vita vera la pubblicità, e ne ricaviamo una straniante impressione, in questo squarcio che un morbo infame ha aperto su una realtà fortemente condizionata ma non sempre pedissequamente dettata dalla réclame stessa, ci sembra a un passo da noi che lo credevamo quasi irraggiungibile quel lussuoso fuoristrada che ci invitano ancora a comprare (ma per andare dove?), ci sembra davvero vantaggiosa quell’assicurazione che ci siamo accaparrati con un clic dopo un ossessivo smanettare sul tablet risparmiando fino a 500 euro (ma per garantirci che cosa?), ci sembra bellissimo e soprattutto non voluttuario come acquisto quell’orologio di gran marca (ma per gestire quale altro tempo oltre quello di necessarie esigenze fisiologiche?). In questa vita-non vita di coatta ma assolutamente vitale reclusione, la pubblicità è come fosse diventata la vita vera, macché esagerata, ammettiamolo, potessimo viverla davvero una vita anche così, con quei grandi sorrisi e quegli avidi sorsi da aperitivo in piazza che sappiamo fintissimi. Il tempo delle cose capovolte, del falso agognato per vero, del vogliamo credere che sarà così – anche al prezzo di qualche ingenuo infingimento da spot – quando finalmente le lancette torneranno a girare su questo orologio fermo, quando ricliccheremo lo start su questo innaturale freeze, quando qualcuno riabbasserà queste fastidiose luci in sala che si sono accese d’improvviso perché la pellicola è scappata fuori dalla bobina.
Per ora accontentiamoci di credere che sia ancora possibile – a costo di consegnarci mani e piedi a uno sponsor – quell’aperitivo a meno di un metro gli uni dagli altri, su una piazza tra le nostre tante belle piazze, che si possano far tintinnare le coppe ghiacciate fra tequila, limone e triple sec. Cin cin.