Tra le prime cose da fare al rientro dalle vacanze estive, c’era l’approvazione di una riforma per reintrodurre l’elezione diretta nelle province. Più poltrone più democrazia più rappresentanza, allo scopo di riconsegnare ai cittadini siciliani le funzioni degli enti intermedi, rimaste ‘vacanti’ dal 2013 per volere dell’ex governatore Rosario Crocetta. L’idea aveva messo d’accordo praticamente tutti: non solo i partiti della maggioranza, ma anche qualcuno dell’opposizione, compreso il Pd. Il passaggio in commissione Bilancio, per stabilire la copertura economica da assegnare alla norma, sembrava una formalità. E invece tutto s’è annacquato. Non solo perché non si trovano i soldi necessari (circa 4 milioni), né perché manca l’accordo sulla data del voto. A preoccupare una fetta della coalizione di governo, in primis Fratelli d’Italia, è l’eventuale inapplicabilità della legge, che sarebbe a rischio impugnativa.
Infatti, mentre la Regione siciliana perfezionava il ddl utile a reintrodurre oltre 300 poltrone (fra presidenti e consiglieri provinciali) a Roma si rimandava l’abrogazione della Legge Delrio, col rischio di rendere incompatibili le due norme. Inoltre, la Consulta emetteva una sentenza che contestava nel merito il commissariamento delle ex province (a cui la Regione ha risposto con altri commissari, stavolta scelti da una rosa di dirigenti regionali). Ecco: lo stop della commissione Bilancio dipende soprattutto da tutto questo. E a nulla servono – anzi, appaiono già superate – le rassicurazioni del ministro Calderoli, che aveva (poco) saggiamente consigliato a Schifani di andare avanti “comunque”. La questione è più difficile di così e specie i patrioti non vogliono assumersi la responsabilità di una scelta che andrebbe in contraddizione con le azioni intraprese nella Capitale. Risultato? Un possibile slittamento nel 2024.
Il presidente della Regione, che ad agosto si era fatto ingolosire dai pronostici (“Sono certo che alla ripresa dei lavori, anche l’Aula, nel rispetto delle regole parlamentari e della dialettica politica, approverà la riforma attesa da anni”), è costretto all’ennesimo passo indietro. Che probabilmente non sarà l’ultimo. Un’altra questione aperta è quella che riguarda l’assunzione di 300 o 400 agenti forestali e lo sblocco dei concorsi che garantirebbe un ricambio dei dipendenti regionali, con la sostituzione di chi è andato già in pensione. Lo scorso luglio, dopo un colloquio da remoto col ministro Giorgetti, Schifani si disse certo di essere a un passo dal traguardo: “A fronte di un impegno ad aumentare gli accantonamenti utili alla riduzione del disavanzo, potremo innanzitutto avviare realmente la macchina dei concorsi per una vera e propria rigenerazione amministrativa dei nostri uffici e per colmare i vuoti nelle piante organiche”. Tre settimane dopo, invece, era già a elemosinare un’occasione: “Ci autorizzi a indire nuovi concorsi per sostituire il cento per cento del personale non dirigenziale andato in pensione dal 2021 in poi”. La mancanza di turnover, inoltre, ha quasi azzerato ruoli, come quello del Corpo forestale, “cui competono delicatissime funzioni, di prevenzione e tutela del territorio, che in altre Regioni sono svolte da amministrazioni statali”.
Siamo alla fine di settembre e anche questa promessa è diventata carta straccia. Solo qualche giorno fa, dopo la seconda ondata di incendi, il presidente della Regione riformulava l’impegno: “La situazione finanziaria è migliorata, quindi potremo rivedere l’accordo ‘lacrime e sangue’ siglato dal precedente governo. Questo ci consentirà lo sblocco dei concorsi”. In attesa dei nuovi dirigenti, però, se la prende coi vecchi. Schifani, infatti, avrebbe contestato il dress code adottato da alcuni di loro durante un incontro a Palazzo d’Orleans, stigmatizzando l’assenza di alcune figure apicali da cui dipende la rimodulazione e la spesa dei fondi europei legati alla programmazione 2014-2020. C’è in ballo oltre un miliardo e mezzo, che andrebbe speso entro il 31 dicembre pena la restituzione all’UE, e anche dall’incontro con il ministro per la Coesione, Raffaele Fitto, è venuto fuori un quadro a tinte fosche.
Schifani fa il possibile per minimizzare i rischi, ma restano tre mesi per evitare il de profundis. Così ha richiamato i capo dipartimento a “un maggiore senso di responsabilità, necessario per affrontare le criticità che riteniamo superabili, ma occorre un grande impegno da parte di tutti. I dati economici – ha aggiunto Schifani – ci incoraggiano, ma non possiamo perdere questa sfida a causa dei tentennamenti della politica e della lentezza della burocrazia”.
I burosauri, assieme al personale del comparto, sarebbero dovuti finire a lavorare nel mega Centro Direzionale promesso da Musumeci. Che però non s’è mai fatto. Tra ricorsi, irregolarità nel bando e ostruzionismo politico, il progetto è momentaneamente abortito. Schifani, però, ha tirato fuori un coniglio dal cilindro: utilizzare all’uopo un grande edificio dell’area Nord-Ovest di viale Regione Siciliana, a Palermo, ch’è stato confiscato alla mafia e assegnato alla Regione per finalità istituzionali. “Stiamo lavorando per trasferire in questo immobile il maggior numero di uffici dell’amministrazione regionale – ha detto il governatore – con l’obiettivo di ridurre il carico degli affitti, in un’ottica di armonizzazione e spending review della spesa pubblica. Ancora una volta i beni sottratti alla criminalità organizzata tornano al servizio dei cittadini, grazie alla collaborazione tra le istituzioni, a conferma dei proficui rapporti con il governo nazionale”. Spuntare anche questa.
Un’altra promessa, l’ultima della serie, riguarda la stabilizzazione dei precari storici della Regione. Una sfilza di persone che, come stabilito dalla bozza della prossima Finanziaria, dovrebbero poter respirare. In questo ambito gli annunci si perdono nella notte dei tempi, per questo c’è poco da fidarsi. Come riassunto da ‘La Sicilia’ un paio di giorni fa, ci sarebbe una prospettiva per i 4.600 Asu che beneficerebbero del via libera al ddl “Pa Bis” del governo nazionale e, grazie all’utilizzo di un fondo da 56 milioni e un percorso condiviso con i Comuni, potrebbero arrivare alla definitiva assunzione. Stessa prospettiva per i 270 Asu dei Beni culturali, che in cambio della rinuncia a una dozzina di ore settimanali, potrebbero essere inquadrati a tempo indeterminato. Anche per i primi 1.200 ex Pip (circa il 50 per cento della platea) si discute di una graduatoria per entrare alla Sas ed essere impiegati nei vari assessorati. Le formule vanno affinate e c’è tempo da qui al 31 dicembre, la scadenza entro cui Schifani e Falcone vorrebbero che l’Ars approvasse la manovra. Ma anche questa è una speranza travestita da annuncio: ce la faranno i nostri eroi?