Ieri all’Ars sembravano andare tutti d’amore e d’accordo. Hanno approvato persino la norma che blocca, per i prossimi quattro anni, l’adeguamento Istat delle indennità dei parlamentari, che solo nel 2023 ha comportato un aumento netto di 890 euro al mese. Persino Schifani ha lodato la maggioranza e l’opposizione, “che in maniera sinergica hanno contribuito a migliorare il testo originario” del collegato alla Finanziaria. E non sono mancati i complimenti al presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, “per la conduzione dell’Aula e l’attività di sintesi esercitata”. Scene che avrebbero fatto impallidire persino Virgilio, autore delle Bucoliche.

Ma cosa c’è dietro? Nel backstage di Palazzo dei Normanni, in pochi credono alla pace. Si tratta per lo più di una tregua armata, sancita da un emendamento di stampo governativo, accolto in parte dagli uomini di Cateno De Luca, che destina a Taormina e ai Comuni nel cui territorio ricadono i 14 parchi archeologici siciliani, il 15 per cento dello sbigliettamento ordinario. Sarebbe da ingenui, però, pensare che il lungo tira e molla dello scorso weekend, che aveva condotto il governo sull’orlo di una crisi (giovedì scorso Schifani minacciò di dimettersi di fronte alla prospettiva di votare l’emendamento originario di Scateno), non abbia lasciato tossine.

Innanzi tutto nel rapporto fra Schifani e De Luca, che di fato non esiste. Il sindaco di Taormina, pur dichiarandosi “non contento” per l’esito di Sala d’Ercole, è riuscito a strappare qualche migliaio di euro in più a titolo di ristoro, e non dovrà sigillare l’accesso al Teatro Antico per le manifestazioni estive. Ma si dice pronto a riproporre la norma che permette ai Comuni di attingere (anche) ai profitti realizzati dai privati attraverso i Grandi eventi. Scateno non ha deposto le armi: ha solo mostrato una forma d’apertura propedeutica a guadagnarsi la fiducia dei colleghi sindaci e di pezzi della maggioranza che sin dall’avvio avevano appoggiato la sua battaglia: da Marco Falcone, assessore all’Economia, a Francesco Scarpinato, responsabile dei Beni culturali. E infine il solito Galvagno, autentico mattatore nella “trattativa” più rovente di questo avvio di legislatura.

Anche fra Schifani e il presidente dell’Ars i rapporti rimangono tesi. Il governatore ha sorpreso il suo interlocutore a tramare per accogliere l’emendamento taorminese di De Luca e ha deciso di mandare in avanscoperta il suo vice, Luca Sammartino, per trattare le cose del parlamento. Galvagno, in una intervista a ‘La Sicilia’, ha lamentato l’invasione di campo: duplice. Da un lato per la scelta di Sammartino, operata senza il coinvolgimento dei partiti (tra cui FdI); dall’altro per l’intromissione del governatore nell’accordo fra gruppi (di maggioranza e opposizione), a cui spetta la decisione di legiferare. Ma c’è un altro precedente che grava sul rapporto fra i due: cioè quella volta che Galvagno, parlando ai giornalisti con un aplomb britannico, fece notare che avrebbe potuto riunire l’Ars ogni giorno. “Ma non c’è carne al fuoco”. Questa osservazione è devastante nel suo impatto. E’ un chiaro riferimento alla giunta inoperosa dei primi otto mesi e a un presidente che non riesce a domarla. Ed è un fardello che Schifani si porta dietro ogni qualvolta decide di convocare i capigruppo e i segretari di partito: anche nell’ultima occasione, martedì pomeriggio, ha chiesto di avviare un percorso di riforme che però l’estate alle porte rende molto complicato.

Resta aperto anche un altro fronte di guerra: quello coi partiti. Fratelli d’Italia, di recente, ha manifestato tutto il suo disappunto per le interferenze del presidente della Regione sugli atti riguardanti il Turismo. Specie per la revoca di un provvedimento da mezzo milione a favore di Urbano Cairo e del suo gruppo, che avrebbero dovuto organizzare un evento mondano a Palermo. “Ben vengano i controlli su tutti i progetti e le procedure messe in campo, ma spiace constatare che il recente provvedimento di revoca della manifestazione Palermo Sport Tourism Arena venga utilizzato come una clava contro la parte politica e l’assessore in carica. Lo stesso metodo che è stato utilizzato con l’ex assessore regionale Manlio Messina. A entrambi va il nostro pieno supporto”, si leggeva in una nota della delegazione siciliana di FdI fra Montecitorio e Palazzo Madama. Anche i tentativi insistenti di cacciare dalla giunta Francesco Scarpinato, allievo di Messina e Lollobrigida, non ha giocato a favore del governatore, che alla fine ha preferito non agitare – non più – la carta del rimpasto. Tutto dimenticato.

A onor di cronaca, però, il mal di pancia più lancinante è quello che attanaglia Forza Italia, alle prese con la gestione (delicata) del dopo-Berlusconi. All’indomani dei rimbrotti di Tajani, sono arrivati quelli del vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, che su LiveSicilia ha ricordato a Schifani – che oggi “possiede” il partito in Sicilia attraverso il suo garante: Marcello Caruso – le regole del gioco- “Tutti dobbiamo remare dalla stessa parte, il correntismo va nella direzione opposta a quella che ci ha insegnato Berlusconi” ha esordito Mulè, che l’estate scorsa aveva sfiorato la nomination per Palazzo d’Orleans. Poi è sceso nei particolari, assumendo il tono di un ambasciatore della pace di cui gli azzurri necessiterebbero: “E’ giunto il momento di tornare a essere inclusivi anche in Sicilia. C’è stata anche una lacerazione dolorosa, frutto di personalismi, rancori e ruggine ed è arrivato il momento di dare una verniciata a tutto: non può esistere il caso Miccichè, Falcone, D’Agostino. Tutti devono ritrovarsi insieme. Non può esistere la logica de tu sì e il tu no”.

“Forza Italia – ha insistito Mulè – ha accolto anche chi aveva preso strade diverse, come Schifani, che era andato altrove e poi è stato riaccolto. Ma penso al recente approdo di Cancelleri, che aveva avuto un’esperienza opposta alla nostra. Questa lealtà non può mancare con chi ha sempre agito nel solco di Forza Italia come Micciché”. La ricetta? “Meno muscoli e più carezze, perché si governa e non si comanda. Governare è diverso da comandare. Se dai l’impressione di voler comandare, dai la sensazione di voler creare delle crepe che non hanno motivo di esistere”. Anche questo intervento non può intendersi come un assolo, bensì come un tentativo ragionato e ragionevole per evitare un’escalation. “L’esperienza e la capacità di Marco Falcone non possono essere in alcun modo messe in discussione o in dubbio – ha ribadito il vicepresidente della Camera -. Sarà il presidente Schifani a trovare una modalità per togliere questo velo che la storia di Falcone, né quella di Miccichè meritano”.

Apprendere la lezione e ripartire daccapo non sarà facile. Continuare da soli, però, non è più tollerabile. Falcone, scippato della delega alla Programmazione, ha vacillato a lungo prima di rimanere in piedi. E’ stata una delle pedine “sacrificabili”, assieme a Scarpinato, al leghista Turano e alla tecnica Giovanna Volo. Per consentire alla coalizione di andare avanti, sono stati confermati in blocco. Ma come fai a trasformare la sfiducia di ieri in fiducia per il futuro? Come farà Schifani a riannodare il rapporto con i suoi assessori? Semplicemente fingendo che non sia mai accaduto? Come farà a guadagnarsi la stima di Galvagno senza approntare una sola riforma di settore? O a recuperare un briciolo di rapporto col parlamento se decide di lavarsene le mani, lasciando in avanscoperta il suo vice e non approfondendo il caso See Sicily, come continua a chiedere imperterrito il M5s? Ecco le questioni aperte. Che la messinscena di una pace non potrà insabbiare.