Le ceneri di Scaldati sono un po’ come quelle di Pirandello. Oddio, sono meno avventurose le peripezie che sono loro toccate in sorte e per fortuna trattasi solo di ceneri teatrali, non come quelle dell’Agrigentino traslate da casse di legno a vasi greci, a urne funerarie per almeno un trentennio post mortem. Ma non si può dire che non vaghino anch’esse, le ceneri di Scaldati. Tra gli applausi, ma senza requie.
Sono passati cinque anni dalla morte del drammaturgo palermitano (1 giugno 2013), uno dei più conosciuti tra i siciliani, fra i più tradotti, messi in scena, studiati e sviscerati, nonostante il dialetto panormita spesso ostico anche nella sua declinazione poetica. E ai Cantieri Culturali alla Zisa stasera c’è il suo Pozzo dei pazzi, la pièce più famosa e più amata, di certo la più rappresentata, regia (titolata) del francese Georges Lavaudant, direttore dell’Odeon parigino, sigla della Compagnia Franco Scaldati, sull’onda dei laboratori al Teatro Garibaldi di via Castrofilippo, meraviglioso rudere ripristinato, fiore all’occhiello della fu primavera orlandiana, quella “the original” degli anni Novanta, adesso diretto da Matteo Bavera, adibito ad ospitare le iniziative di “Manifesta”. Un insieme di sigle, insomma.
Ma al di là dei marchi, di chi sono, oggi, Scaldati e il suo teatro? In verità sono della Compagnia che ne porta il nome e nel nome del suo erede artistico Melino Imparato (ma dietro c’è anche uno dei figli dello scrittore, Gabriele) il verbo scaldatiano è diffuso urbi et orbi. Verbo che, tra editi e inediti, tra libri e quadernetti, è enorme. Ma è oltre lo scritto, è quando Scaldati si fa scena che i destini si intrecciano, si sovrappongono, forse si complicano anche, in una sorta di originale nomadismo che alterna vocazione anarchica e sirene istituzionali che fu di Scaldati stesso quand’era su questa terra.
Perché la vita artistica del “Sarto” (Scaldati s’innamorò del teatro da apprendista nella sartoria di Pippo Ferina) è un ondivagare per Palermo, un fiero sottrarsi prima e un sofferto cedere poi al canto flautato del cosiddetto “teatro ufficiale”. Prima – da metà anni Sessanta fino ai primi anni Settanta – da attore, ma muovendo anche i primi passi come autore, nelle varie formazioni e nelle sale di Nino Drago (i Draghi, il Piccolo Teatro) – poi con i suoi attori-musicisti e con i suoi testi in una serie di teatrini-scantinato (la Locanda degli Elfi, il Re di Coppe) dove ha avuto le prime vere attenzioni della critica ed è diventato “il Sarto” (negli anni a venire perfino i critici se ne litigavano la scoperta).
Poi ci furono le stagioni del Biondo, diverse. Lo Stabile palermitano appena nato doveva accentrare, concentrare, centrifugare e Scaldati era un’occasione grossa e ghiotta, intellettualisticamente e politicamente. Così Pietro Carriglio, all’alba degli anni Ottanta, lo attrasse al Biondo ma lo affidò purtroppo ad un “gruppo di studio” guidato da Renato Tomasino, docente universitario di teatro, che lo “studiò”, per l’appunto, coi suoi allievi, come si studia un batterio su un vetrino sotto la lente di ingrandimento. Risultato: uno Scaldati freddo, non più il poeta trasognato e rovente del lumpen-proletariat rappresentato nei garage, roba posticcia. Insomma, un flop. I critici gridarono al tradimento, alcuni ci persero perfino la testa (potenza delle istituzioni!).
Dopo qualche stagione l’uscita dal Biondo, vuoi per il carattere per l’appunto anarcoide dell’artista, vuoi per tornare a respirare aria che non fosse tutta stucchi e velluti. E soprattutto per tornare a scrivere in totale libertà. Fu il periodo del “sociale”, del teatro all’Albergheria, di padre Cosimo Scordato che lo prese sotto la sua tutela, del laboratorio che accoglieva anche la gente del quartiere, un teatro “due camere e cucina”, candele al posto dei riflettori. Anche quella, la strada, la frontiera popolare, oggi, rivendica Scaldati, se ne sente erede. Poi il ritorno al Biondo (Carriglio lo volle anche nell’”Opera da tre soldi” brechtiana con una gallina in mano à la maniére de Il pozzo dei pazzi) e in mezzo c’erano pure state le lusinghe del teatro oltrestretto (Elio De Capitani del milanese Teatro dell’Elfo, i siciliani Vetrano e Randisi, da anni emigrati in Emilia, che ancora riempiono i teatri di tutta Italia con Assassina e Totò e Vicè) e di recente ancora il Biondo-Stabile di matrice Alajmo che, dopo la morte del Sarto, ha affidato Lucio e l’antologico Tre di coppie ad un altro artista che ha raccontato Palermo attraverso la “poetica delle brutture”, Franco Maresco.
Ognuno si sente orfano, insomma, una pletora di eredi legittimi, di figli d’arte, di discendenti di scena. Ognuno con il suo sacchetto di ceneri. Sarebbe bello adesso se venissero fuori dei ragazzi, puri, non “viziati” da forme scaldatiane, scevri da analisi critiche e da tentazioni celebrative, che prendessero in mano quelle pagine, spesso scritte con la biro o a macchina, e ci raccontassero cosa trasmette loro, il poeta, quali visioni, quali mondi sospesi tra realtà e allucinazione. Magari soffiando su quelle ceneri, prima che diventino polvere.