Hanno litigato per 800 milioni fino a raggiungere un accordo “di comodo” in commissione Salute. La torta sarà abbastanza grande per tutti. La missione 6 del Pnrr Sanità, che aveva visto la fuga solitaria di Razza, i messaggini ai sindaci di Intravaia, le proteste del parlamento siciliano e la rottura quasi definitiva tra il “cerchio magico” di Musumeci e Forza Italia, quarantott’ore fa ha fatto segnare una tregua. Persino il Pd è uscito rinfrancato dalle ultime decisioni adottate in camera caritatis, con la previsione di 149 interventi aggiuntivi rispetto alla rete ospedaliera esistente (da adeguare), e la creazione di 44 ospedali di comunità di cui tre, previsti a Bagheria, Carini e Palazzolo Acreide, per i quali si dovranno cercare fonti di finanziamento extra rispetto alla dotazione del Pnrr (in quali capitoli, però, non è dato saperlo). Nelle indicazioni di massima della Regione, quindi, si è sforato il tetto di spesa per la realizzazione delle nuove strutture.
Si tratta, come detto, di ospedali e case della comunità. Per quanto riguarda i primi, nella ricognizione operata dal governo nazionale, inviata all’Unione Europea a corredo del Pnrr, se ne contano già 163 “attive”. Di cui zero (!) in Sicilia e parecchie decine nelle regioni del Nord, tra cui Veneto, Toscana ed Emilia Romagna. Si tratta di strutture concepite per l’erogazione di cure intermedie, che hanno come obiettivo “quello di evitare i ricoveri inappropriati in ospedale e supportare al meglio il processo di dimissione dalle strutture di ricovero, garantendo assistenza a pazienti con condizioni complesse, superando la specificità per singola patologia/condizione” (fonte Quotidiano Sanità). Ospiteranno la media di venti posti letto.
Nelle 1.288 case di comunità che sorgeranno in tutta Italia entro il 2026, “verranno forniti tutti i servizi sanitari di base per costituire un “punto di riferimento continuativo per la popolazione” e seguire i malati cronici”. Lo spiegano sul Foglio in edicola Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi. “Il piano – scrivono – è abbastanza dettagliato e assume a modello le case di cura progettate e finanziate dalle politiche sanitarie nelle regioni Toscana ed Emilia Romagna, certamente non confrontabili con le realtà sociali ed economiche di altre zone del paese che possono essere più o meno industrializzate, ma soprattutto molto diversamente attrezzate per quanto riguarda la capacità di fornire servizi equivalenti per efficacia e professionalità”. Il tentativo di Speranza è diffondere a macchia di leopardo strumenti standard di assistenza sanitaria, senza tener conto delle differenze fra le aree del Paese; e, aggiungiamo noi, senza considerare i gravi deficit di organico – problema non secondario – che si porta dietro la sanità siciliana.
Dall’ultimo disegno relativo alle piante organiche, recentemente approvato, servirebbero 17mila assunzioni nei prossimi tre anni (con quali soldi?). Al netto di case e ospedali di comunità che, come noto, dovrebbero ‘invadere’ l’Isola da qui al 2026. Come si farà a renderli operativi? Magari utilizzando lo stesso stratagemma visto durante l’emergenza, quando proliferavano i posti letto di terapia intensiva, ma non c’era un numero adeguato di anestetisti e rianimatori per attivarli? Chissà. Resta il fatto che anche le case di comunità rappresentano un investimento in termini di risorse umane: infatti ospiteranno dai 10 ai 15 laboratori, con la presenza h24 di medici (da 30 a 35), infermieri (almeno 8), tecnici e amministrativi. Dopo aver edificato le nuove strutture, bisognerà trovare chi ci lavora. Qualcuno ha già prospettato una soluzione: stabilizzare i precari Covid, circa 9 mila, che potrebbero essere destinati dall’emergenza alla post-emergenza. Si tratta, come noto, di un processo per nulla facile. E per certi versi, di un discorso prematuro. Giacché per l’accesso alla pubblica amministrazione servono i concorsi, e la maggior parte dei 6 mila operatori sanitari assunti a tempo determinato durante il Covid, non hanno maturato i requisiti per la stabilizzazione ‘automatica’.
Mettendo da parte questo assunto, restano dei problemi di fondo. In primis la validazione del Ministero della Salute entro il 30 giugno (nelle ultime ore il piano è stato trasmesso all’Agenas). Poi, su un piano che oseremmo definire ‘concettuale’, la vera utilità di questi presidi che Corbellini e Mingardi accostano alle Case del Popolo di Peppone e Don Camillo: “Le case di comunità per la salute – scrivono sul Foglio – sono concepite secondo un modello uniforme, rispecchiano una filosofia comunitaria che appiattisce la diversità della domanda di salute, mentre nonostante tutto Don Camillo e Peppone cercavano di andare incontro a diversi bisogni individuali. Il che è paradossale, visto che l’innovazione tecnologia e l’esperienza socio-culturale nelle società fondate sull’informazione individualizzano le aspettative”. La capacità di adattamento è sottesa di per sé alla definizione di “comunità”, che, secondo l’interpretazione di molti psicologi sociali, “è tarata su poche centinaia di persone con le quali riusciamo a stabilire senza grossi sforzi legami significativi”. Invece le case di comunità di Speranza “dovrebbero rivolgersi a popolazioni variabili tra 10/15mila in aree rurali e 30/35mila in aree metropolitane: chiamare “comunità” gruppi tanto grandi e pensare che riescano a rispondere alla domanda di salute, particolarmente esigente, dei pazienti con disturbi cronici è un singolare esercizio di ottimismo”.
Le controdeduzioni dei due giornalisti trovano corrispondenza nella logica: “Le cronicità – spiegano – sono e saranno il vero problema dei sistemi sanitari nelle società occidentali (…) rappresentano un grande serbatoio di bisogni, ovvero – detto brutalmente – il lato della domanda di un grande mercato. Il modo in cui si sta pensando alle malattie croniche non sembra tener conto del fatto che le principali sfide avranno a che fare con gli effetti di queste patologie sulla capacità dei malati e quindi sulla relazione tra paziente e medico o struttura sanitaria. Proprio per la natura della cronicità (un problema protratto nel tempo) il miglior interesse del malato è meno chiaramente definibile, senza un dialogo costante e continuo. Nelle descrizioni delle case di comunità l’enfasi è solo sugli aspetti propagandistici pure annaffiati di dettagli para-organizzativi, il lavoro in team, le professionalità, l’età. E’ abbastanza chiaro però che il Ministro Speranza e i suoi tecnici li pensano come luoghi dove si rendono dei pazienti dipendenti da protocolli piuttosto che aiutarli a riguadagnare autonomia. Malgrado si parli di centralità del paziente inteso implicitamente come individuo, si tratta di un paziente standard del tutto fittizio, che non esiste nelle realtà”, è la conclusione.
E ancora: “Le vere comunità saranno probabilmente virtuali: pazienti con esigenze simili, che potranno essere messi in contatto con professionisti specializzati. Lo scopo principale delle case di comunità è quello di decongestionare i pronto soccorso, gestendo direttamente con uno staff di medici e infermieri i codici bianchi, e di limitare l’assalto agli ospedali. Queste strutture però avranno anche la conseguenza di ridurre ulteriormente le professionalità e il ruolo dei medici di medicina generale, le cui motivazioni sono ormai ai minimi termini”. Se questa teoria fosse confermata, l’impalcatura su cui si erige il modello delle case di comunità ne risulterebbe profondamente intaccata. E finirebbe col risolvere poco o nulla delle questioni per cui si è resa necessaria.
Don Camillo e Peppone non ne andrebbero fieri. Razza e i deputati dell’Ars avrebbero potuto fare a meno di litigare per così poco. Un “poco” che oggi, però, rappresenta tantissimo: un bottino di guerra, un’esibizione muscolare di campanili, una prova per deputati audaci. “Abbiamo costretto il governo a discuterne in Parlamento attraverso la commissione parlamentare”, ha detto Antonello Cracolici, del Pd. Non fa una piega. Il governo della Regione, che voleva procedere d’imperio, è dovuto scendere a compromessi. Cedere particelle di potere. Aprirsi ai territori e ai sindaci. E’ uno di quelle volte in cui il metodo appaga più della sostanza. E in cui la Sicilia non è l’unica colpevole.