Sanità di spesa e di sfascio

Il presidente della Regione, Nello Musumeci, assieme al soggetto attuatore del potenziamento ospedaliero, Tuccio D'Urso

Mentre l’ospedale Cervello di Palermo, un giorno sì e l’altro pure, sfoggia sui tg nazionali la bruttezza delle sue ambulanze in coda, “compensato” da una tensostruttura (rivelatasi esigua) che funge da pronto soccorso, e le proteste esasperate degli autisti soccorritori del 118, costretti a sorbirsi turni di lavoro interminabili, la Regione riceverà in dote dal Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza, la bellezza di 800 milioni di euro. 797 per la precisione, sugli oltre 220 miliardi destinati complessivamente all’Italia da parte dell’Unione Europea per guidare la rinascita post-pandemica. Un gran risultato. Siamo la terza regione per dotazione finanziaria in materia di sanità. Fanno meglio la Lombardia, che scollina di poco il miliardo, e la Campania. Ma la vera domanda è la seguente: chi gestirà gli 800 milioni? E soprattutto, che fine faranno?

Il luccichio delle monete ha già allertato la politica che in una prima fase avrà il compito di vivisezionare l’offerta e pianificare gli investimenti sul territorio. Entro il 30 giugno, infatti, bisognerà firmare con il ministro della Salute, Roberto Speranza, il Cis, acronimo di Contratto interistituzionale di Sviluppo, che contiene una programmazione di massima. Il primo obiettivo, non dichiarato ma reale, è evitare che tutto si riduca a un libricino dei sogni, come avvenne nella compilazione iniziale del Pnrr in salsa siciliana: un insieme di richieste grottesche da parte della deputazione – tra acquari e aeroporti improponibili – che non superò nemmeno lo svincolo di Cariddi.

Il rischio, ovviamente c’è, e aumenta a dismisura in vista della stagione elettorale che culminerà con le Regionali nel prossimo autunno. E’ chiaro che assessori e parlamentari in cerca di riconferma, si batteranno per fare in modo che una delle 146 “case della comunità” (moderne guardie mediche con locali nuovi e spazi più ampi) o i 39 “ospedali di comunità” (l’evoluzione dei Pte: punti territoriali di emergenza) sorgeranno a due passi dalla propria segreteria. Ma non è così che va, o dovrebbe, andare il mondo. Magari, per dirimere le voglie più sfrenate, potrebbe sorgere l’ennesima cabina di regia, come quella creata a immagine e somiglianza dell’assessore Armao, per la progettazione e il monitoraggio di una parte degli investimenti legati al Recovery Fund. Non è uno scherzo: qualcuno, come la deputata della Lega Marianna Caronia, ha già fatto richiesta per “un tavolo tecnico-politico di programmazione della spesa” allo scopo di “scegliere quale modello di sanità pubblica si vuole adottare, quali strutture esistenti potenziare e quali nuove creare, in che modo costruire la nuova rete territoriale di base e il sistema di assistenza domiciliare”. Sul piatto ci sono: 216 milioni per le “Case della comunità”, 96,4 per gli “Ospedali di comunità”, 201,1 milioni per migliorare gli ospedali esistenti, 7,5 milioni per la formazione di 11.700 operatori sanitari, 114,6 milioni per le grandi apparecchiature, 139,8 per la digitalizzazione, 16,8 milioni per l’interconnessione aziendale.

L’arrivo di ingenti risorse, che stimola le voglie fameliche della politica, è il perfetto contraltare di ciò che oggi avviene negli ospedali siciliani. Saturi fino al collo, costretti a riconvertire i reparti non in grado di garantire le cure ordinarie ai pazienti extra Covid e a decentrare l’assistenza – dalla città alle periferie – perché hanno le corsie invase di pazienti ‘positivi’ e non sono in grado di accoglierne altri. Strutture obsolete che il virus, sulla carta, avrebbe potuto rendere più moderne e adeguate. Questa pandemia, infatti, ha fruttato un giro d’affari spaventoso all’interno della sanità siciliana. Basti pensare ai 128 milioni di euro promessi da Roma, che a ottobre sono diventati 237 in seguito a un aggiornamento del ‘piano’, utili al potenziamento delle strutture ospedaliere. E che hanno innescato un giro vorticoso di incarichi e affidamenti.

Dei numerosi interventi programmati entro la fine dell’anno scorso, però, moltissimi non si sono conclusi. E la struttura commissariale che il “commissario” Musumeci ha affidato all’ingegnere Tuccio D’Urso, in qualità di soggetto attuatore, è riuscita a realizzare 95 posti letto di terapia intensiva e sub-intensiva sui 571 previsti (e completare un solo pronto soccorso, all’ospedale di Trapani). Fin qui, ad onor di cronaca, Roma ha messo sul piatto solo una fetta della torta (58 milioni), per questo – per una lentezza burocratica fuori dall’ordinario – le imprese, non riuscendo ad approvvigionare le materie prime, hanno rallentato i lavori fino a bloccarli. Entro marzo, nei buoni propositi aggiornati dell’assessorato, altri 232 posti letto di Terapia intensiva e tredici pronto soccorso vedranno la luce.

Nonostante la curva sia in diminuzione, la pressione sugli ospedali continua ad aumentare. Le cure territoriali latitano. Le Usca non bastano. Il personale è ridotto all’osso, nonostante le tante assunzioni per andare incontro all’emergenza. Il coinvolgimento dei medici di famiglia è all’anno zero. Le farmacie non riescono a smaltire – anche se la situazione è migliorata – la richiesta incessante di tamponi. Le quarantene durano un’eternità perché ottenere un certificato di guarigione è come arrampicarsi sull’Everest a mani nude. E spesso gli operatori sanitari finiscono nel mirino di pazzi senza scrupoli, al secolo No Vax, che si prendono la briga di minacciare dottori e dottoresse, come avvenuto al responsabile del Pronto soccorso del ‘Cervello’, Tiziana Maniscalchi. C’è chi mette a repentaglio la propria vita, e chi, dall’altro lato, non riesce a garantire le condizioni per poter lavorare in santa pace e fronteggiare un’emergenza che dura da due anni. Due anni. Il tempo per capire come funziona il mondo e come non farsi trovare impreparati di fronte alle successive ondate. Macché.

La sanità siciliana, uscita indenne dalla prima scarica di morti nel 2020 (grazie al lockdown), non ha fatto un solo passo avanti. Si è aggrovigliata in un’inchiesta giudiziaria che ha messo a nudo le debolezze del sistema e che, in attesa di scrivere la parola ‘fine’, ha dimezzato il dipartimento Attività sanitarie della Regione – persino con un paio di arresti – e messo in discussione la credibilità di un assessore. Che oltre a essere indagato dalla magistratura, è finito nel mirino di una parte della maggioranza (Forza Italia) e con la sua presenza ingombrante potrebbe aver sancito, del tutto o in parte, l’attuale crisi di Musumeci. La gestione dell’assessorato alla Salute da parte di Ruggero Razza, ha provocato – secondo il presidente dell’Ars – una sorta di malfunzionamento complessivo: “Tutti sono in fibrillazione – ha detto il presidente dell’Assemblea regionale a Repubblica -. Non possiamo litigare con tutti. I medici della medicina generale ci fanno causa perché hanno lavorato gratis, le associazioni sono infuriate. È un problema da risolvere”. Quando? Come? Di certo l’arrivo di ulteriori 800 milioni, più che a sanare la questione, potrebbe farla deflagrare.

Una lettura da proporre è quella di Antonello Cracolici, deputato regionale del Pd con una certa esperienza di governo, che l’altro giorno a Buttanissima ha fornito la sua versione dei fatti: “La sanità è un disastro perché pensano a come spartirsela, piuttosto che a renderla efficiente”. Ma anche le immagini mandate in onda qualche sera fa da Piazza Pulita, trasmissione di La7, lasciano senza fiato. Con impalcature e controsoffitti ancora da completare, e arnesi in giro per i corridoi, al quinto e al sesto piano dell’ospedale Cervello, che al netto delle professionalità di chi ci lavora e fa il massimo per garantire l’efficacia delle cure, risulta la cartina tornasole di una sanità martoriata. O l’ex Imi, l’istituto materno infantile, sede distaccata dal Policlinico, che coi soldi del Covid si è provveduto a ristrutturare, ma oggi risulta completamente vuoto e accessibile (solo) per le telecamere. Tutto questo è la risultanza di veti incrociati, meccanismi inceppati, responsabilità inevase. E’ l’effetto di una visione distorta della sanità pubblica, a metà fra appetiti e impotenza. Spiega i problemi e le liti. Ma non serve a superarli. Povera Sicilia.

Enrico Ciuni :

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