L’unica scuola che abbia mai frequentato è quella di strada. Dissacrante, teatrale, ironico. Porta in scena il popolo, la saggezza che corre veloce tra i vicoli dei quartieri. Lui, Salvo Piparo, è la voce della gente, dei bambini che inseguono un pallone, degli anziani che giocano a tressette, è la voce delle contraddizioni. Del bianco e del nero, del sangue e della risata, dell’amaro e dello zuccherino. Abile narratore, uno dei migliori interpreti del teatro di narrazione, erede della più antica tradizione del “cunto” siciliano, Piparo è un genio che sul palcoscenico ha trovato la sua dimensione. “Sono soltanto un palermitano che ama raccontare la sua città tenendo sempre a mente i suoi due aspetti. La leggerezza che fa spazio alla tragedia che, puntualmente, incombe e che, regolarmente, mescola il rosa al nero di una città tanto bianca quanto nera”.
La scintilla si accende a 20 anni, ma la miccia era in dotazione. “Ero appena un bambino quando, dopo avere guardato i primi cabaret di Luigi Maria Burruano, ripetevo e mimavo lo spettacolino a casa, con i miei parenti”. Poi il teatro di Salvo Licata, l’amicizia fraterna con Costanza, la figlia, la passione per le contraddizioni di una città. “Tutto ha inizio quando, durante una vacanza a Palermo, dopo essermi trasferito a Milano, vidi fuori dalla porta di un teatro Gigi Burruano – racconta Piparo -. C’era lui, seduto su una sedia, aveva la giacca strappata, le ‘papole’ ai piedi, stava raccontando dell’avvento dei bingo, del sopravvento della città nuova sulla città vecchia che nel frattempo pian piano sbiadiva. Mi ha colpito vedere questa cosa così semplice, ascoltare quella cadenza che al nord tanto mi mancava. Ho sentito il fuoco accendersi dentro di me, ho capito che mai nulla di diverso avrei desiderato fare nella vita. ‘Posso entrare?’ chiesi. Disse di sì, anche se non mi conosceva”.
S’innamora della poesia del marciapiede che affonda le sue radici nelle rime surreali di Giuseppe Schiera, nel cabaret dei Travaglini, nel guizzo brillante di Salvo Licata, cronista del giornale “L’Ora”, ma anche scrittore, regista, autore di teatro, di cabaret. “Ero un tifoso del teatro di Salvo. C’era Giuseppe Schiera, lo sberleffo anti fascista del ventennio che muore sotto i bombardamenti del ’43”, ricorda Piparo. Quel Charlie Chaplin alla palermitana, quel poeta di strada che negli anni del fascismo recitava versi beffardi sull’arroganza del regime era stato per anni portato in scena da Giorgio Li Bassi, pioniere del cabaret palermitano, la voce del popolo. “Si chiamava Giuseppe Schiera ma si presentava come ‘a fabbrica du pititto’. Era magro, allampanato, ‘è come te’, mi disse Costanza. Così cominciai con le strofanelle in rima, che abbiamo rimesso in scena al Teatro Biondo”.
Salvo Licata un padre, Costanza una madrina, ma Gigi, Gigi Burruano, il genio di chi fa questo lavoro a passi scalzi, senza proclami o autocelebrazioni. “Burruano è stato un maestro che non ha mai voluto sentirsi chiamare maestro – spiega Piparo -. Molti che non erano maestri pretendevano di farsi chiamare così e lui anche in questo voleva essere dissacrante”. Dissacrante, come il cunto di cui è erede, voce, la stessa che si spezza in un singhiozzo ricordando l’attore e regista scomparso lo scorso settembre. “Mi manca il suo realismo, perché la sua non era una scena. Sul palco la sua voce vibrava. La scena di oggi è finta, artefatta, frutto di una elucubrazione studiata a tavolino da un regista. Non è sanguigna, non è delittuosa come il palermitano in fondo è. Finanche quando ci diamo un appuntamento lo siamo. ‘Dove ni viriemu’, ‘Là’, ‘Là dove?’, “Unni c’è u giurnalaio’, ‘Quali giurnalaio’, ‘Unn’ammazzaru a Costa’. Noi palermitani ricordiamo più i luoghi degli omicidi che dei monumenti. Ecco, manca la delittuosa passionalità”.
Dopo i successi di Strabuttanissima Sicilia – doppio sold out al Teatro Biondo di Palermo, altrettante al Musco di Catania con la regia di Giuseppe Sottile -, adesso Salvo Piparo porta in scena ‘R, patrona’, uno spettacolo che nasce negli anni ’70 e che sarà sul palco allestito alla francese nel cortile Maqueda di Palazzo Reale il 9 e il 10 luglio, a partire dalle 21. R come Rosalia, come Reale, come riscatto, come rinascita. “R come il simbolo di una città intera”. Uno spettacolo, un colossal popolare, tratto dai canovacci di Salvo Licata, poi messo in scena da Burruano, oggi rinato su iniziativa della Fondazione Federico II. “Un riadattamento sotto la regia di Clara Congera, che fu compagna di Gigi. Un omaggio a Salvo Licata, alla memoria di entrambi”, precisa Piparo che sarà la voce narrante dello spettacolo.
Alessandra Salerno sarà ‘l’ancileddu’ che salverà Rosalia (Costanza Licata) dalle tentazioni, mentre Antonio Cadili, un bambino, sarà ponte della narrazione tra gli attori in carne e ossa e i pupi, messi in scena dalla famiglia Argento, con Dario e Nicolò, volti della più antica tradizione pupara di Palermo. Ci saranno i trionfisti che rievocheranno gli antichi orbi con Michele Piccione, ci sarà Egle Mazzamuto nei panni di una luna menzognera, ma anche sputa fuoco, free climbing e le coreografie di Virginia Gambino. Ci sarà l’omaggio a Rosalia che, conclude Piparo, “non è mai stata raccontata dentro Palazzo Reale eppure, essendo la nipote di Re Ruggero, abitò lì”. Almeno così vuole la leggenda.