Si dice che un bravo allenatore di calcio lo si vede da come sa mutare la formazione e il modo di giocare a partita in corso. Più si è lesti a cambiare schema, quando è necessario, e più si è apprezzati dal pubblico (e dal proprietario della squadra). Matteo Salvini non è un allenatore, per quanto gran tifoso del Milan, ma è capo di un partito politico non irrilevante nonché vice presidente del Consiglio nel governo Meloni. Ci si attende da lui una versatilità, o meglio un’agilità nell’adeguarsi alle mutate circostanze della vita pubblica, che invece non figura tra le sue migliori caratteristiche. Il capo leghista ripete sempre lo stesso copione, quello che gli aveva portato fortuna qualche anno fa, ma oggi è ingiallito e persino noioso.
L’idea di fondo, come è noto, consisteva a suo tempo nello spostare a destra l’asse del partito, fino a farne una sigla di estrema destra. Non banalmente nostalgica, ma senz’altro radicale nel suo approccio ai problemi, primo fra tutti l’immigrazione irregolare. Su questa base la Lega ottenne circa il 34 per cento nelle Europee del 2019, dopo il 17 alle Politiche dell’anno prima. Addirittura nell’estate dello stesso anno, il ‘19, poco prima del colpo di testa del Papeete, arrivò nei sondaggi a sfiorare il 37 per cento. Un’impresa non da poco per un partito che nasceva con Umberto Bossi su posizioni localiste e, come sappiamo, quasi secessioniste. Un partito a cui Massimo D’Alema aveva riservato in origine una definizione diventata famosa: “Una costola della sinistra”. Viceversa Salvini lo aveva trasformato in una formazione “sovranista”, che è un modo moderno per dire nazionalista, di sicuro anti-liberale, alla stregua di tanti partiti destrorsi che vivevano con alterna fortuna la loro avventura politica. Continua su Huffington Post