Il ragionamento di Salvini su chi imbarcare alle prossime elezioni è nato in Sicilia, durante il beach tour fra Taormina, Catania (soprattutto) e Siracusa. Al netto di un’accoglienza per niente rose e fiori, e pur restando nel campo delle ipotesi, è dalla passerella sicula che il Ministro dell’Interno ha capito (forse) come utilizzare il corposo bacino di voti del centrodestra al Sud. Dove alla Lega non converrebbe affatto correre da sola. Questione di collegi. Poi è arrivato un assist, quasi involontario, dell’altro Matteo, come ha segnalato col solito pragmatismo social Antonello Cracolici, deputato regionale del Partito Democratico: “Renzi ha ottenuto un ottimo risultato: ha diviso il Pd e unito il centrodestra”. E se la prima parte del discorso è inconfutabile – fra i “dem” è più larga che mai la frattura fra Zingaretti e l’ex premier – per la seconda bisogna un attimo ragionare.
Cercando di incunearsi nella frattura fra Salvini e i Cinque Stelle, e volendo garantire la “resistenza” in vita dei gruppi parlamentari del Pd (ancora ultra-renziani), l’ex presidente del Consiglio ha forzato la mano per la creazione di un governo istituzionale che, fra gli altri, comprendesse le parti moderate del Paese. Impossibile non pensare a Forza Italia, e un piccolo patto del Nazareno (geneticamente modificato) con la sua “Azione Civile”, il movimento che si appresta a nascere da una costola del Pd. Magari comprendente qualcun altro (i grillini). Solo che Berlusconi, in questa fase, poteva giocare una doppia mano: la prima, in assenza dell’approvazione di Salvini, propedeutica alla sopravvivenza, che significava in soldoni rinviare l’appuntamento con le urne; la seconda, comunque meno rassicurante della prima, prendere per la gola il Capo del Viminale, dargli una mano a vincere nel Mezzogiorno (in Sicilia Fi è reduce dal 17% delle Europee) e tentare una nuova esperienza di governo, sebbene in posizione minoritaria.
Il Cav., che si strategie se ne intende, ha così riunito il direttorio e Gianfranco Micciché ad Arcore, per un’attenta valutazione di ciò che sta succedendo. Puntando sull’inversione a “U” di Salvini, che fino alle 11 di domenica mattina (Lido Caparena di Taormina) sembrava non volerne sapere di vecchie alleanze – “Micciché non mi ama” – ma nel corso del pomeriggio ha cambiato rotta, lasciando intravedere ben più di uno spiraglio. Il centrodestra compatto, infatti, potrebbe lottare per la vittoria in tutti i 28 collegi uninominali dell’Isola, che all’ultimo valzer (il 4 marzo 2018) sono stati appannaggio dei grillini. Sbancare la Sicilia vorrebbe dire sbaragliare la concorrenza altrove: troppo ampio, stando ai sondaggi, il margine nei confronti del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico. Il prossimo governo, sempre che Mattarella si pronunci a favore di elezioni a ottobre, sarebbe spiccatamente di centrodestra. E non solo di destra, come qualcuno ha temuto in queste ore.
E a beneficiarne sarebbe Forza Italia, che nei sondaggi è data sotto la Meloni, ma in Sicilia si riserva un peso specifico da prima della classe. Proprio nell’Isola, non più tardi di due mesi e mezzo fa, il partito di Berlusconi e Miccichè rappresentò un argine alla furia populista, che aveva portato persino la Lega – le indicazioni e le proteste giunte da Catania e Siracusa vanno prese con le molle – a un passo dal 21%. Un’alleanza con Salvini, con lo “str…” di Salvini, che talvolta gli è parso persino peggio di Hitler, sarebbe l’ultima profezia politica di un Gianfranco Miccichè pronto a turarsi il naso: “L’atteggiamento strafottente di Salvini nei confronti del Sud non mi piac – ha detto ieri il commissario regionale di FI – Inutile nasconderlo. Allo stesso modo non mi piace il fatto che offenda Richard Gere sui tema dei migranti e il suo comportamento nei confronti di chi è a mare, sta male e non viene soccorso. Ma lui si chiama Salvini e io Miccichè. Siamo molto diversi, anche antropologicamente, ma per quanto mi riguarda la politica è un’altra cosa: è una coalizione che fa le cose che servono al Paese”.
Una coalizione che, a partire dall’Isola, darebbe valore e spessore all’esperienza di Forza Italia. Perché, pensateci bene: se alle ultime Europee i forzisti anche in Sicilia fossero spariti come altrove, non avrebbe senso per Salvini portarseli dietro. Ma l’istinto dice che c’è almeno un’ultima carta da giocare, prima (eventualmente) di trasferire baracca e burattini ne “L’altra Italia”, la famosa formazione di centro su cui Berlusconi spinge da un paio d’anni. La nuova casa dei moderati, senza infezioni da destra.
L’operazione Lega-Forza Italia, inoltre, finirebbe per far passare in secondo piano, e rendere velleitari, gli altri esami di laboratorio di cui si è ampiamente discusso in questi mesi. A partire dall’alleanza fra Salvini e Musumeci, che il braccio destro del governatore, Ruggero Razza, ha provato a rendere immediatamente esecutiva con la formazione di un gruppo all’Ars – Ora Sicilia – i cui componenti (su tutti Luigi Genovese e Tony Rizzotto) non sono affatto piaciuti all’establishment del Carroccio. Tanto che nell’ultimo periodo l’entusiasmo di Stefano Candiani, commissario della Lega in Sicilia, nei confronti del governatore si è notevolmente raffreddato. E che lo stesso Salvini, nelle scorse settimane, aveva rimarcato da Caltagirone come Musumeci, anziché pigiare sull’acceleratore delle alleanze, facesse meglio a fare il governatore e basta. Il “capitano”, d’altronde, faticherebbe meno a piazzare come capilista nei collegi uomini di Forza Italia o Fratelli d’Italia, che non di Diventerà Bellissima, una forza regionale che non si è misurata (escluse le Politiche del 2018, in cui l’esperimento con Meloni fallì) da un punto di vista elettorale in competizioni di grosso calibro.
L’ultima chance di rimanere aggrappato al cavallo vincente, per Musumeci, è la sponda di Giovanni Toti. E’ naturale che la nuova formazione del governatore della Liguria, “Cambiamo”, abbia un appiglio con la Lega. Lo stesso Toti è arrivato a rompere con Berlusconi per offrire a Salvini la terza gamba del centrodestra. Che, stando così le cose, rischia di diventare la quarta. Un esperimento, forse meno bizzarro e stantio, di quello di Noi con l’Italia – i cespugli di centro – alle ultime Politiche (dove presero poco più dell’1%). E’ quella, con buona probabilità, la casa di Musumeci. Resterebbero tagliati fuori – a causa dei dissapori sul piano ideologico e morale con Salvini – tutte le formazioni di centro “puro”, da Saverio Romano a Raffaele Lombardo. Ma, almeno quest’ultimo, è sempre riuscito a risorgere. In Forza Italia, invece, perderebbe quota il gruppuscolo di Gaetano Armao, che conta su una manciata di adepti (tra cui se stesso e la compagna Giusi Bartolozzi). Se sarà Micciché a comporre le liste con Candiani (a proposito, i due dovranno smussare molti angoli), difficilmente il vice-governatore siciliano, provetto “ex assessore”, troverà modo di esprimersi in un ambiente che a stento lo sopporta.
Resta a tinte fosche, invece, il quadro del Partito Democratico. Il clamoroso ripensamento sul Movimento 5 Stelle – Renzi rifuggiva da un accordo coi grillini (ricordate il caso Faraone in Sicilia?) fino a pochi giorni fa – rischia di costare una buona fetta di elettorato. Ma soprattutto la tenuta di un partito che, almeno nell’Isola, sulla carta è già scisso. Siamo nel campo delle ipotesi, nella stagione afosa della politica, dei comizi in riva al mare. Ma qualche indicazione è già arrivata: se i “dem” non riuscissero a ritagliarsi un ruolo attivo in un governo di scopo, inseguire Palazzo Chigi dalle urne sarà molto faticoso.